Conferenza presentata nell’ambito dell’iniziativa Pescia nella Grande Guerra.
Sezione Palazzo del Podestà – Pescia, 19 maggio 2015

E’ difficile descrivere con una semplice relazione scritta una piccola parte di una grande storia, di un popolo e di una Città, che così tanto hanno inciso nel determinare il percorso identificativo dell’intera Valdinievole.
Pescia, città altra per eccellenza rispetto ai paesi con i quali è stata costretta forzatamente, suo malgrado, ad integrarsi e ad avviare un percorso comune, che poco le si confaceva, la città dei fiori, così viene chiamata in molte parti della Toscana, e non, oppure la città di Pinocchio, in riferimento al celebre romanzo ambientato proprio a Collodi, ha una sua peculiarità storico-culturale molto particolare. La ricchezza delle vestigia del passato è tutt’ora presente, e si apre anche agli occhi dell’improvvisato visitatore che, in certi momenti, si può sentire catapultato in una storia più grande di lui. Possiamo indicare, tra le altre cose, il Duomo in Santa Maria; la casa di Giuseppe Giusti; l’incantevole chiesa di San Francesco; la Ferraia della Pescia Antica; la Piazza Grande; la chiesa di San Michele Arcangelo; Colleviti; Monte a Pescia; Collodi – il paese di Pinocchio – dove sulla sommità del piccolo borgo vi è la chiesa romanica di San Bartolomeo, chiesa di una bellezza mirabile, nella propria sobrietà, suggestiva; per non proferire il nome di Piazza Mazzini, unica nel suo genere, laddove è ubicata la sede del comune, nell’ex Palazzo del Vicario, attiguo al Palazzo della Loggia dei Mercanti dove sono collocati molti uffici comunali. E come ci possiamo dimenticare dello splendido Palazzo del Podestà in Piazza Palagio, all’interno del quale vi è la Gipsoteca ‘Libero Andreotti’, con una raccolta dal valore inestimabile delle opere dello scultore Pesciatino, al quale è stata intitolata quest’area adibita a museo; della Biblioteca ‘Magnani’, situata in Villa Sismondi – che fu l’abitazione del famoso studioso Ginevrino, che aveva trascorso una parte della sua vita in questa villa, autore, tra le altre cose, del volume ‘Storia delle Italiane Repubbliche’ – che custodisce al suo interno delle raccolte letterarie di un valore esclusivo, inestimabile: i carteggi del Galeotti, il fondo Ansaldi, la raccolta Luigi Salvagnini, i manoscritti inediti del sommo poeta Giuseppe Giusti, soltanto per citarne alcune. E, sui promontori adiacenti la città dei fiori, vi è la Svizzera Pesciatina con i suoi piccoli paesi che racchiude, come all’interno di uno scrigno, la storia gloriosa di questi borghi nei quali, durante tutto il Medio Evo protetti da questi incantevoli insediamenti, svolgevano la loro vita gli abitanti dell’epoca. E anche a voler fare una ricerca accurata, minuziosa, è impossibile menzionare tutte le bellezze architettoniche, ricche di vestigia storiche, e i mirabili paesaggi della città di Pinocchio.
Possiamo concludere questo breve excursus sulla città di Pescia affermando, senza ombra di dubbio, che questo centro è unico nel suo genere non soltanto in Toscana ma anche in Italia.

Città altra anche e soprattutto un secolo orsono, in quel 24 maggio 1915, giorno in cui l’Italia decise di entrare in guerra; guerra nella quale furono coinvolti anche gli abitanti di Pescia.
In quel contesto storico Pescia, a differenza di molte paesi e città che confinavano con essa, era ricca sia di aziende manifatturiere che di fermenti culturali, e il tenore di vita di molti Pesciatini era leggermente superiore a quello degli abitanti dei comuni confinanti, basti pensare che, in quel periodo storico, a Pescia si davano alle stampe ben quattro periodici di diverso indirizzo politico.
Ma non è la storia di questi soggetti, per così dire privilegiati, che vi voglio narrare, mi sono posto l’obiettivo di analizzare la storia degli ultimi, degli umili; quegli umili, come affermava Alessandro Manzoni, che trascorrono la loro esistenza sulla terra, su questa nuda terra Madre, senza lasciare nessun segno, agli occhi dell’improvvido scrittore, del loro passaggio.
Cercherò di introdurvi, seppur brevemente, nell’intimo percorso umano dei contadini mezzadri di Pescia che si videro gettati, loro malgrado, nella cosi detta ‘Grande Guerra’.
La vita dei contadini mezzadri era legata alla campagna e l’avvicendarsi delle stagioni faceva sentire gli uomini un tutto con la natura che li circondava. Gli uomini dediti alla terra vivevano in sintonia con le stagioni, e la loro vita quotidiana era regolata, come si è detto, dal lento scorrere della natura. Soltanto al sopraggiungere dell’inverno il corso della vita di queste persone rallentava il suo ritmo, quasi si addormentava, e gli uomini si fermavano, con più attenzione, a contemplare il paesaggio che li circondava. D’inverno cadeva come per incanto un silenzio irreale, che neppure il frastuono della tramontana o lo scrosciare della Pescia erano capaci di violare. Le altre stagioni, a differenza di questa, disperdevano gli uomini, o per meglio dire li avvicinavano ma allo stesso tempo li allontanavano l’uno dall’altro; infatti, la campagna rubava tutte le energie ai contadini, impegnati a lavorare nei campi dall’alba al tramonto. Invece l’inverno aveva un fascino tutto suo, particolare, nonostante la pioggia e il freddo costringessero a rimanere chiusi nelle loro abitazioni spoglie di luce i Pesciatini mezzadri, dove il vento faceva da padrone e il freddo arrivava fino al limite del focolare acceso. D’inverno anche il pane sembrava più buono, e il prosciutto appeso in cantina, e il formaggio lasciato a invecchiare nei fondi dei coppi dell’olio, e il maiale lavorato di fresco, facevano trascorrere la noia delle lunghe serate. Nei pressi del focolare, vicino ad un ciocco di legna acceso, pisolavano i Nonni; ma di sera, dopo cena, tutti si disponevano intorno al fuoco. Le donne a rammendare o a far la calza e i ragazzi ad aspettare la favola della zia di turno. Era il momento più profondo della giornata, l’occasione per ritrovarsi, per parlare delle cose di tutti i giorni e delle vicende del paese. Ma a rallegrare l’inverno arrivavano le feste natalizie. La partecipazione ai riti religiosi era quasi totale, e la messa di mezzanotte era un appuntamento al quale nessuno poteva mancare. Il bambino Gesù, con in mano un piccolo globo, sorrideva dall’altare maggiore a grandi e piccini.
Trascorso l’inverno come per incanto arrivava la quaresima ad annunciare l’arrivo imminente della primavera.
E la pudicizia, la sacralità dell’evento, sembrava ammansire tutti: giovani e vecchi. Tutto era rituale e misterioso e la religiosità acquisiva forme e metodi veramente suggestivi. Le donne col velo nero, mentre vegliavano al sepolcro, cantavano l’Ave Maria del Giovedì Santo. Il Venerdì Santo era il giorno più sentito dalla pietà contadina, forse perché più vicino alle sofferenze e alle speranze degli umili.
Al contempo, le giornate si allungavano e le rondini, stridule e chiassose, annunciavano l’arrivo della primavera che, inesorabilmente, terminava con i primi bagliori estivi.
Di giugno i fiori s’imbrattavano di pollini, gli uccelli godevano la prima prole e le averle seguivano radenti l’onda dei grani. La fatica dei lavori estivi metteva a dura prova uomini e bestie, ma non si creda che i Pesciatini dell’epoca si lasciassero prendere dallo sconforto.
L’amore per la terra, il gusto della numerosa figliolanza, l’onestà con la quale si guadagnavano il proprio pane quotidiano, rendevano i nostri paghi della loro vita.
Si arrivava all’autunno dopo gli acquazzoni di fine agosto e gli ultimi bagliori settembrini dell’estate. Dai grandi alberi iniziavano a staccarsi in silenzio le prime foglie, dando vita e figura all’aria; ora tiepida nello sfondo grigio del cielo. Soltanto gli zirli dei primi tordi e le chiamate delle ghiandaie querciaiole rompevano la profondità del silenzio. Ma l’autunno era principalmente la stagione della vendemmia. A quel tempo la vendemmia aveva ancora il sapore di un rito, il colore di un’antica festa pagana. I parenti e le famiglie dei conoscenti si aiutavano a vicenda. Con la raccolta delle uve e l’aratura dei campi s’interrompeva il colloquio dell’uomo con la terra. Le foglie lasciavano gli alberi con la loro nudità. Il contadino, la terra, le piante, gli animali, sentivano un irrefrenabile bisogno di riposo. Un riposo, che maturato dai rigori dell’inverno, avrebbe poi dato una primavera esaltante.
Quando arrivò la Guerra anche, e soprattutto, per questi uomini vi fu desolazione e morte, poiché molte terre rimasero incolte, a causa del fatto che tanti giovani contadini, poco più che ragazzi, andarono a morire al fronte.

L’entrata dell’Italia in Guerra fu decisa da tre uomini: Vittorio Emanuele III – Re d’Italia -, Antonio Salandra – Presidente del Consiglio -, Sidney Sonnino – Ministro degli Esteri, Livornese d’origine Siciliana -. Senza consultare il Parlamento, essi si accordarono segretamente con gli alleati – Inglesi e Francesi -, i quali promisero che, in caso di vittoria, l’Italia avrebbe ottenuto il Trentino, l’Alto Adige, l’Istria e il protettorato d’Albania. Alla fine Salandra ottenne i pieni poteri dal Parlamento e il 24 maggio 1915 l’Italia dichiarò guerra alla sola Austria. Il giorno stesso dell’entrata in Guerra, il 24 maggio, le armate Italiane, attestate lungo l’Isonzo e sul Carso, furono lanciate all’attacco dal comandante in capo, il generale Luigi Cadorna. Tuttavia l’offensiva Italiana non raggiunse risultati decisivi e tra maggio e novembre costò 62.000 morti e 170.000 feriti. Poi anche sul fronte Italiano la Guerra ristagnò nelle trincee, così come sugli altri fronti. Fronti aperti all’indomani del bombardamento Austriaco su Sarajevo, operato il 28 luglio del 1914, poiché l’Austria riteneva la Serbia la diretta responsabile dell’attentato che costò la vita, il 28 giugno 1914, al Principe ereditario al trono Austro-Ungarico Francesco Ferdinando, attentato che ebbe luogo per l’appunto, come si è detto, in quel di Sarajevo. Questo bombardamento dette il via alla Grande Guerra dove si confrontarono, su cinque fronti aperti, i contingenti militari di vari stati, quelli di Francia, Belgio e Inghilterra da un lato, e Tedesco dall’altro, sul fronte occidentale, che si estendeva per circa 1000 km, da Ostenda al confine Svizzero; l’esercito Russo, – alleato con gli Inglesi, i Francesi, e i Belgi – fronteggiava gli Austro-Ungarici sul fronte Orientale, che si estendeva per quasi 2000 km, dal Mar Baltico al Mar Nero; i Serbi, combatterono contro Austriaci e Bulgari, sul fronte Balcanico, che si estendeva per 500 km, da Belgrado a Valona; il fronte Turco – i Turchi erano alleati dell’Austria e della Germania – si suddivideva in tre parti: il fronte Russo-Turco, che si estendeva per 700 km, dal Mar Nero al Mar Caspio, il fronte Turco-Inglese, che si estendeva in Mesopotamia per 500 km e dall’Egitto alla Palestina per 1000 km, il fronte Turco-Francese, attestato lungo le frontiere del Libano. Il fronte Italiano, aperto nel 1915, si estendeva per 250 km dal Lago di Garda all’Adriatico. Qui si fronteggiarono solo Italiani e Austriaci, salvo nel 1917, quando i Tedeschi giunsero a dar man forte ai loro alleati.
Gli schieramenti erano i seguenti, con gli Imperi Centrali di Austria-Ungheria scesero in campo: Germania, Impero Turco, Bulgaria. Alla Serbia si affiancarono tutte le potenze che avevano aderito alla Triplice Intesa, e cioè: Gran Bretagna, Francia, Russia. In un secondo tempo ad esse si aggiunsero Belgio, Giappone, Romania, Stati Uniti, Portogallo, Grecia; la Russia uscì dal conflitto, a seguito della Rivoluzione d’Ottobre del 1917.
L’Italia, come si è detto, pur facendo parte della Triplice Alleanza, stipulata con l’Austria-Ungheria e la Germania, entrò in Guerra il 24 Maggio 1915, alleandosi con le forze della Triplice Intesa, dette in seguito, dagli storici, le forze alleate. La posizione Italiana all’inizio del conflitto era ambigua. Da un lato la Triplice Alleanza la legava all’Austria, che però aveva il torto di possedere le terre irredente – Trento e Trieste -, tanto care, tra l’altro, al poeta vate Gabriele D’Annunzio, e a molti intellettuali che vedevano con l’entrata in Guerra dell’Italia la giusta conclusione storica del Risorgimento Italiano che non aveva portato a termine la liberazione, dal dominio Austriaco, delle terre sopra citate. Il governo Italiano, in un primo momento, decise di rimanere neutrale. Neutralità interrotta dalla decisione presa, nel 1915, dal governo capeggiato da Antonio Salandra.
Le cause del conflitto furono molteplici, ed avevano alla sua radice un latente scontro economico-industriale, tra gli Stati in questione, ed una volontà di autodeterminazione di alcuni popoli, soprattutto per quanto concerne i Paesi dei Balcani, che erano sfuggiti da poco al giogo Turco, e dal problema delle terre irredente di Trento e di Trieste. Frattanto, anche sul fronte Occidentale, dopo una veloce avanzata Tedesca, la Guerra ristagnò nelle trincee, a causa di una controffensiva Francese che costrinse le truppe Tedesche a indietreggiare al di là del fiume Marna. Al contempo, i Russi impegnavano l’esercito Austro-Tedesco sul fronte Orientale in una snervante Guerra di logoramento.

Questo è, a grandi linee, il contesto storico all’interno del quale furono catapultati anche i contadini di Pescia, che erano poco più che dei ragazzi; la loro età variava, in molti casi, dai 18 ai 23 anni. Questi giovani, poco più che adolescenti, erano delle persone umili, semplici, attaccate alla propria terra e alle proprie tradizioni Cattoliche, che in molti casi non erano mai uscite dal territorio Pesciatino.
Essi si trovarono a combattere prevalentemente su di un fronte Alpino lungo circa 250 km. Lo difendevano combattendo sia contro gli Austriaci, sia contro il gelo, la neve, le valanghe. Cannoni leggeri e mitragliatrici venivano issati prima a dorso di mulo, poi dagli uomini sulle vette impervie. Spesso una cima era collegata a un’altra da teleferiche. Per non parlare delle lunghe marce giornaliere, e della costante e snervante Guerra di trincea alla quale erano costretti molti soldati.
Ma ecco come ci descrive il tutto un soldato dell’epoca, tale Sergio Matteoni.

Il Fondatore della Società del Buon Consiglio riceve dal socio Matteoni Sergio soldato nel… Regg. Fant. La seguente lettera:
Carissimo Quintilio,
la sua lettera del 12 agosto mi è stata gradita. Avrei voluto scrivervi più spesso ma, potete immaginarvi, siamo in prima linea. Abbiamo avuto molto da lavorare e ci resta poco tempo libero, ed anche in quel poco tempo che ci resta, trovandosi così stanchi, non abbiamo voglia nemmeno di scrivere. Il 15 corrente abbiamo fatto una piccola avanzata e da allora non si sente altro che rombare il cannone e ogni tanto si sentono delle scariche di fuciliera ma, ormai, ci abbiamo fatto l’abitudine e non si curano più, in quanto a dormire sotto la tenda, e creda che tra questi monti, da qui avanti il freddo comincia a farsi sentire, ma pazienza e coraggio e rassegnazione ai voleri del buon Dio.
Suo dev.mo Matteoni Sergio
1) la Voce del Popolo, Pescia 4 settembre 1915, brano di una lettera indirizzata al Fondatore della Società del Buon Consiglio, da parte del Soldato Matteoni Sergio.

Come si evince dalla missiva in questione la vita dei soldati al fronte era tutt’altro che rosea. Ma inoltriamoci all’interno delle loro peripezie cercando di analizzare la prossima epistola, la quale contiene la descrizione dei paesaggi di quei luoghi dove imperversavano i conflitti, e di alcune lunghe marce giornaliere, alle quali molti soldati dovevano sottostare. La lettera si conclude con la narrazione di una battaglia.

I signori Augusto e Giulia Maltagliati ricevono dal loro figlio Dante, volontario nell’esercito, che fin dagli inizi della Guerra si trova al fronte, la seguente lettera: lì 15.08.2015
Miei cari genitori,
oggi mi è giunta molto gradita la vostra lettera del 7 agosto. In questa mia vi darò tutte le spiegazioni che mi chiedete. Ho ricevuto quasi regolarmente sia i pacchi che le raccomandazioni che mi avete inoltrato, e vi ringrazio di cuore. In quanto a fare il mio dovere non ne dovete dubitare; anzi, ho avuto dagli Ufficiali molti elogi per la mia intraprendenza di fronte al pericolo: quando le palle di cannone, sibilando, mi passano vicino alla testa […]. La distanza dal luogo dal quale sono a servizio sarà di 25 km, una meschinità in confronto ai 200 e più km che giornalmente facciamo. Ogni mattina passiamo il confine Italiano ed andiamo a portare le munizioni o i viveri fino a pochi metri dalle trincee, credevo di poter incontrare da un momento all’altro Vincenzo o Silvio […].
Il nostro buono e coraggioso Re l’ho veduto molte volte e credete mi ha fatto piangere. Anche i soldati che sono in trincea appena lo vedono si sentono più coraggiosi ed una nuova forza si vede trasparire dai loro volti.
Alcuni giorni orsono ero in un distaccamento con tutta la mia sezione sulla vetta di un monte, vicino alle trincee Italiane da dove, senza cannocchiale, ho potuto vedere una lotta gigantesca. Un forte, dopo 3 giorni di lotta accanita, fu preso d’assalto dai nostri ed ora è nelle nostre mani. Il nemico ripiegò lasciando sul terreno un numero infinito di morti e feriti con armi e munizioni, e più di un centinaio di prigionieri. Da 3 giorni il duello d’artiglieria infieriva e i cannoni nostri flagellavano le fortificazioni nemiche, erano tiri precisi che dove colpivano menavano strage. Il nemico aveva le posizioni migliori, e teneva dura resistenza. In quella zona di combattimento pareva si fosse scatenato un furioso temporale. Il fumo bianco dei nostri proiettili aveva oscurato la terra. Gli scoppi erano frammisti allo scrosciare della fucileria e le mine esplodevano con delle denotazioni mute, mentre i sassi e il fango volavano per aria, i reticolati erano stati abbattuti, ed i nostri avanzavano di corsa scavalcando i corpi dei caduti. Gli Ufficiali, insieme ai soldati, gridavano: avanti Savoia! Le nostre artiglierie si erano spinte fino a un 200 metri dalle artiglierie nemiche. I nostri presero il forte e vi piazzarono una forte artiglieria da montagna da dove, con tiri precisi, respinsero il nemico che stava cercando di recuperare ciò che aveva perduto il giorno prima. Altro non vi dico. Un bacio a Guido. Vostro figlio Dante Maltagliati.
2) la Voce del Popolo, Pescia 11 settembre 1915, brano di una lettera indirizzata ai genitori Augusto e Giulia, da parte del loro figlio Dante Maltagliati.

Quest’ultima lettera ci ha introdotto, seppur di riflesso, alla Guerra di trincea. E forse, di conseguenza, è il momento di descrivere compiutamente la vita nelle trincee.
Le decine di km di fossati scavati nel terreno per offrire riparo ai soldati dalle mitragliatrici nemiche erano stati concepiti all’inizio della Grande Guerra come un rifugio provvisorio delle truppe in attesa dell’attacco decisivo che avrebbe sbaragliato il nemico. Divennero invece la sede permanente dei reparti di prima linea per tutto il corso del conflitto.
Lungo tutti i fronti fu scavata una fitta rete di fossati disposti su due o più linee; la più avanzata era collocata, a volte, a poche decine di metri dalla prima trincea nemica. I semplici fossati divennero negli anni una serie di fortificazioni sempre più difficilmente espugnabili, dotate di ripari di legno per gli Ufficiali, difese da reticolati di filo spinato e da “nidi” di mitragliatrici.
La vita in trincea era contemporaneamente monotona e rischiosa; logorava il fisico, costringendo i soldati all’immobilità, e logorava il morale: si stava senza far niente per ore e ore, giorno e notte all’aperto; la pioggia allagava i fossati e costringeva i soldati a vivere con il fango fino alla vita per intere settimane; alzare la testa o accendere un fiammifero poteva significare essere colpiti all’istante dai tiratori nemici, sempre all’erta. Ogni mattina si andava all’attacco, inutilmente, scattando fuori dalle proprie trincee, inciampando nei reticolati, facendosi falciare dalle mitragliatrici avversarie, attaccando le prime linee alla baionetta, finendo inevitabilmente respinti.
Ancora più angoscioso era l’incubo dei gas asfissianti, usati massicciamente da Tedeschi e Austriaci, sia contro i Francesi, che contro gli Italiani. La morte sopravveniva per soffocamento, dopo una lunga agonia.
La gran parte dei soldati della trincea, in tutti gli eserciti, era formata da contadini, come lo erano la gran parte dei Pesciatini partiti per il fronte.
Questi uomini giovanissimi potevano contare su di un unico conforto, vale a dire la memoria della loro piccola Patria Pesciatina che si incarnava nei ricordi della propria famiglia; dell’amata Madre, dell’amato Padre, dei fratelli, le sorelle, le zie e gli zii, e i Nonni; nelle loro lettere traspare anche un amore struggente per le proprie tradizioni, una religiosità fuori dal comune e, soprattutto, un forte attaccamento sia alla propria piccola Patria Pesciatina, e non, che alla loro grande Patria Italiana. In questo contesto umano la chiesa Cattolica, con la sua capillare organizzazione ecclesiastica, svolse un ruolo di connessione tra questi ragazzi, che erano al fronte, e le loro famiglie. Un ruolo fondamentale, senza il quale questi giovani Pesciatini si sarebbero sentiti soli, abbandonati, e allo sbando. Ma così non fu, perché la chiesa Cattolica non li abbandonò a se stessi, anzi, con i cappellani militari, di stanza al fronte, e i sacerdoti presenti in quel di Pescia, e nei paesi limitrofi, l’organizzazione ecclesiale riuscì ad operare una straordinaria opera benevola, improntata alla misericordia e alla pietas Cristiana.
Ma facciamo entrare in campo, come si suol dire, una lettera in questione.

Alcuni brani di un messaggio che il Sacerdote Agostino Papini, Curato di Chiesina Uzzanese, ha inviato al Canonico Gaetano Sonnoli.
Il Sacerdote Papini è Cappellano Militare.
[…] La mia vita è quella di stare in un treno porta feriti ad assistere i moribondi e a dare il buon esempio alle persone che mi circondano. I Cappellani Militari godono del titolo di Tenenti. E’ sul campo di battaglia che si può verificare l’esistenza della fede in Dio. Io non faccio che viaggiare su questo treno. Nel Cappellano Militare il soldato riscontra: la Madre – nella dolcezza -, il Padre – nella forza -. Molti soldati chiedono di essere benedetti sia in punto di morte che in procinto di attraversare un pericolo. Ho ottenuto a Cormons, dal Vescovo di Udine, un altare da campo completo. Il tricolore Nazionale si trova sull’altare, ogni mattina si celebrano 3 messe, alle quali i soldati partecipano in gran numero.
3) la Voce del Popolo, Pescia 28 agosto 1915, parte di una lettera che il Sacerdote Agostino Papini – Cappellano Militare -, Curato di Chiesina Uzzanese, ha inviato al Canonico Gaetano Sonnoli.

Come abbiamo constatato dalla lettura di questa missiva il ruolo dei Cappellani Militari era unico, insostituibile, essi facevano da collante tra le famiglie e i soldati al fronte; infatti, molti Cappellani Militari vivevano con i soldati in prima linea, ne condividevano i rischi, e li sostenevano nello spirito e nel morale, in altre parole dimostravano con i fatti, e non con i vocaboli, che la famiglia Cristiana di questi giovani era lì partecipe con loro, e non li aveva abbandonati nel momento del pericolo. Al contempo, i Sacerdoti presenti sul territorio Pesciatino, e Italiano, si adoperavano per lenire i problemi economici e morali dei familiari di questi soldati che erano stati spediti a combattere. La chiesa Cattolica Italiana si fece animatrice di un ruolo identificativo e caritatevole nell’immedesimarsi e, di conseguenza, attenuare le sofferenze degli umili.
Il Papa Benedetto XV era contrario alla Guerra, egli aveva lanciato un accorato appello alla Nazioni coinvolte perché ponessero fine all’ “inutile strage”. Nessuno gli prestò ascolto e alcuni, anzi, lo accusarono di ripetere le formule della propaganda pacifista dei Socialisti. Ma dal momento che la furia degli eserciti non accennava a placarsi, la chiesa Cattolica si impiegò, come si è ripetutamente detto, per alleviare le sofferenze sia dei soldati al fronte che delle loro famiglie, private del loro bene più caro, i loro amati figli. Ecco come cerca di spiegare questi concetti un bersagliere di Santa Lucia – all’epoca facente parte del territorio comunale di Pescia -, attraverso un suo scritto.

Agostino Checchi, bersagliere di Santa Lucia, scrive dal fronte, in data 21 luglio 1915.
Caro zio.
Mi è giunta la vostra lettera, io qui sono al sicuro, soffriamo un po’ di freddo, siamo sopra a una grande montagna della quale ogni giorno diventa bianco il terreno dalla grandine. Ci dobbiamo affidare a Dio che suscita, afferra, affama, consola, e che riserva un premio eterno agli uomini di buona volontà, che con grandi sacrifici compiono il loro dovere […]. Questa fede in Dio mi faccia rimanere nella sua grazia, mi incoraggi in ogni difficoltà, mi conforti in ogni sacrificio. Noi Cattolici non avremo voluto questa Guerra, in nome dei sentimenti d’amore e di fratellanza indicati da Gesù a tutti gli uomini. Ma se la Guerra la si deve fare, la dobbiamo fare nel migliore dei modi, confidando nell’aiuto di Dio, che all’Italia ha affidato grandi disegni di vera e Cristiana civiltà. Quindi per ogni soldato Italiano deve essere un conforto e un vanto cooperare, compiendo il proprio dovere, all’onore e al bene della Patria, e ai disegni della Provvidenza.
4) la Voce del Popolo, Pescia 28 agosto 1915, parte di una lettera che Agostino Checchi, bersagliere di Santa Lucia, scrive dal fronte.

Le condizioni degli uomini che erano stati chiamati alle armi erano davvero difficili, come si può verificare anche dalla missiva che abbiamo analizzato. Ma facciamocele spiegare da un diretto interessato.

Il soldato Giuntoli scrive una lettera a una signora, volontaria del Comitato della Croce Rossa di Pescia.
Stimatissima signora.
Anche all’altezza di 2700 metri, con un buon metro di neve, le invio i più fervidi saluti. In mezzo a tanto gelo sto benissimo. Soffro un poco, ma cosa sono le sofferenze dinnanzi al grande ideale che sta realizzandosi, la vittoria delle armi nostre? I pericoli ed i sacrifici di fronte a ciò spariscono, sono fiori, anzi, di gradito odore.
Salutandola distintamente, mi creda.
Suo Giuntoli.
5) la Voce del Popolo, Pescia 23 ottobre 1915, lettera che il soldato Giuntoli inoltra a una signora, volontaria del Comitato della Croce Rossa.

Come si è detto il Parroco del paese era una figura fondante, durante il conflitto; una figura insostituibile, insieme al Cappellano Militare, nel mantenere vivo il ricordo dei soldati per la loro Piccola Patria locale; i quali, non dimentichiamocelo, erano stati chiamati a combattere per la loro Grande Patria.
Ecco una lettera di un militare di Vellano, indirizzata al Parroco del Paese.
Vellano all’epoca era un comune indipendente da Pescia con un proprio territorio.

Il soldato Otello Bonci, socio del circolo “Religione e Patria” di Vellano scrive al Parroco.
Molto rev.do don Giovanni.
Non le ho scritto prima, nei momenti della lotta non possiamo disporre di molto tempo.
Sappia che dopo lunghi 4 mesi ho potuto avere un po’ di riposo, e creda i 4 mesi di campagna militare sono stati molto terribili e le conseguenze sono state molto penose, ma in ogni modo ho potuto scamparla, e qui si vede che il buon Dio ha avuto pietà di me.
Creda ora ritrovandomi tra la quiete e la pace mi sembra d’essere rinato. La prego di pregare per me, e mi saluti tutti i compagni del circolo, e che anche loro a nome mio facciano delle preghiere per essere esaudito, e che possa compiere il mio dovere come fino ad ora ho il vanto d’averlo compiuto, e che possa scampare, di nuovo, per la seconda volta il pericolo, e la morte. Cesso avendo la speranza di avere una sua risposta, e così darmi delle novità del circolo e del paese.
Salutandola caramente mi dico dev.mo.
Bonci Otello lì 13.10.1915
6) la Voce del Popolo, Pescia 23 ottobre 1915, lettera che il soldato Otello Bonci invia al Parroco – don Giovanni – di Vellano.

Proseguiamo il nostro percorso che ci introduce, nella prossima missiva, alle sofferenze dei soldati nelle zone di combattimento, confortate dai loro sentimenti Cristiani.

Rev.mo Parroco del “Castellare”
A nome di tutti i soldati della Parrocchia le porgo un caro saluto a lei e a tutta la popolazione.
Facendole sapere che con il nostro reggimento abbiamo preso parte a diverse azioni. Il nostro reggimento ha sempre avuto encomi solenni, come avrà anche lei letto: le Giornate di Plava e la conquista del Monte Sabatino, dove abbiamo resistito sotto il fuoco nemico. Oggi trovandosi un po’ di riposo abbiamo pensato di inviare a lei la seguente missiva sapendolo in buona salute e che giornalmente sappiamo che alla nostra Parrocchia celebra funzioni religiose perché ben presto avvenga la pace. Per poi tutti noi di poter tenere alta la fronte e di poter gridare: Italia! Una e Grande!
Pertanto la ringraziamo con la preghiera di voler pubblicare la seguente.
E con distinta stima a nome di tutti della Parrocchia, la saluto.
Suo dev.mo
Cap.le Danesi Olinto lì 15.10.1915
7) la Voce del Popolo, Pescia 23 ottobre 1915, lettera che il Cap.le Olinto Danesi scrive al Parroco di “Castellare”.

Nella prossima epistola, ancora di Otello Bonci, indirizzata, di nuovo, al Parroco di Vellano, possiamo evidenziare la sofferenza dei Cattolici dell’epoca, che dovevano fare il loro dovere, durante la Guerra, ma erano pervasi da un sentimento Cristiano di pace e di fratellanza, nonché d’afflizione per la lontananza dai propri cari.

Egregio signore Arciprete.
Con grande ritardo ma sento in me il dovere di rispondere alla sua, per me tanto gradita lettera, dove mi è giunta in senso di vero sollievo e di profonda consolazione. Cerco di proseguire il mio cammino con il conforto di Dio […].
Il mio più brutto pensiero è che mi trovo tanto lontano da chi amo e senza sapere come e quando ci potremo rivedere; questo doloroso pensiero mi domina e fa tremare la mia mano che si ostina a tracciare queste linee che il mio pianto cancella.
Ma torno a pregare e allora torna in me il più immenso coraggio e confido che l’Angelo Custode mi segua e mi protegga per sopportare con eroica ed esemplare rassegnazione i miei sacrifici fino alla vittoria.
Dunque sempre avanti, speriamo che il buon genio che presiede alle vicende comuni si converta in un prossimo mio ritorno con un ramo d’olivo, è vero?
E così tutto tornerà tra noi, pace e serenità.
Dunque, tornerò a pregarlo col mio cuore più profondamente commosso che non cessi le sue assidue preghiere, perché in questo momento mi trovo dove più ferve la lotta, in attesa di andare ad affrontare il nemico, pregando, che possa tutto procedere bene. Cesso di scrivere senza poter terminare perché il tuono del cannone mi chiama al dovere. Se mi sarà dato di potere riscriverle, le scriverò una più lunga lettera spiegandomi meglio.
Mi saluti tutti ed anche la mia famiglia.
E lei gradisca i più vivi ringraziamenti.
Di lei obbligatissimo.
Bonci Otello

la Voce del Popolo, Pescia 6 novembre 1915, parte di una lettera che il soldato Otello Bonci fa pervenire al Parroco di Vellano.

In questa epistola, che abbiamo appena letto, si rileva spontaneamente il dolore di questi giovani combattenti, derivatogli dalla mancanza dei propri adorati familiari.
Consanguinei per i quali si corrono anche dei rischi evitabili. Come si può evidenziare dalla prossima lettera in questione.

Il Caporale A.B. scrive a suo fratello B., redattore della Voce del Popolo.
Caporale dopo 5 anni per meriti di servizio. Siamo a 2010 metri.
Hai avuto delle mie foto?
Oggi ti mando un piccolo fiore delle Alpi, un Edel Weis. Tanta fatica per raccogliere il fiore, ho dovuto salire per altri 800 metri – 2810 metri – per trovarlo, e mi son dovuto spenzolare con una fune. Son fiori rari e pericolosi, da cogliere, tienilo in memoria di me.
Pregate per me. Tanti baci.
Tuo A.
9) la Voce del Popolo, Pescia 31 luglio 1915, lettera che il Cap.le A.B. scrive a su fratello B., redattore della Voce del Popolo.

L’assenza dei loro congiunti faceva provare ai nostri una sofferenza indescrivibile, fisica, commovente, come fa risaltare la prossima epistola, che non ha bisogno di tante presentazioni. Facciamo entrare in causa direttamente, con il suo scritto, il soldato Terzo Vezzani di Stignano, paese non comprensivo del territorio comunale Pesciatino. Ma questa sua lettera, che ci rende partecipi dei suoi sentimenti, è meritevole, comunque, d’essere commemorata.

Il soldato Terzo Vezzani di Stignano scrive:
Mio caro Padre. lì 10.09.1915
Da tanto tempo vi volevo scrivere una lettera, oggi dopo una lunga marcia, ho raccolto un fiore per voi. Il mio pensiero è stato di mandarvelo, facendo un piccolo racconto, lo chiamano fiore, ma è una stella alpina. Per voi sarà una cosa nuova, perché dalle nostre parti non l’ho mai veduta. E’ un fiore che fa solo qua, dove si svolge la Guerra. Non è un fiore di giardino, non è una rosa profumata, non è un mughetto, come si vedono nelle piazze o nelle vetrine delle nostre città, che lo vendono a molto prezzo. Questo fiore non ha prezzo, ma mi è costato tanto sudore e tanta fatica, per andare a raccoglierlo ci vogliono delle ore di cammino, su per la montagna. Ma benché sia faticoso il cammino, per andare dove abita il presente, ci vado volentieri, perché credo di mandarlo con tanto affetto, e con tanta contentezza, a voi Babbo. Dovete essere orgoglioso di un figlio che, compie il proprio dovere per la Patria, vi manda un fiore dalle montagne, nelle quali imperversa il combattimento. Appena avrete ricevuto questa mia, unita alla bella eroica stella alpina, sarà vostro pensiero riporla per farmela vedere a un mio ritorno. Vedendo codesto fiore potrò ricordarmi tante avventure passate, e tante cose di questa santa Guerra.
Certo la vita non è bella, non c’è da lagnarsi, ma da questa a quella borghese c’è una bella differenza. Mentre che scrivo, o Babbo, questa mia con tanto affetto, sono alla riva di un fiume chiamato Cordevole, sono in mezzo a un praticello dove c’è la casa mia. Il nudo terreno mi serve da letto, sono circondato da piccole case di tela, ove riposano i miei compagni, a me non mi importa del riposo, mi preme mandarvi le mie notizie che sono tanto desiderate per voi, e per la Mamma.
Vi dico che sto bene.
Siamo a settembre, l’aria comincia a raffrescare, è pura, qua è venuto il freddo a farmi visita.
Quanto mi tornano alla mente, le belle giornate, le lunghe passeggiate fatte per i contorni, i bei divertimenti.
Ricordo sempre, sai Babbo!
Quando eravamo assieme a lavorare nella bella sorridente campagna, dove passavamo tutti quei beati giorni assieme uniti, era un piacere a vedersi. Benché fossi stato un poco pigro ad alzarmi la mattina, mi alzavo volentieri perché sapevo di venire con voi. Ma la pigrizia sotto le armi l’ho scacciata, mi alzo prima che spunti l’aurora, si parte per una lunga marcia, dove ho raccolto questo fiore, e per farvi sapere quanto ci vuole per arrivare alla cima di queste montagne partendo, come vi ho detto, fino alla sera dopo le cinque non si arriva mai. Alla sera quando ritorno, benché sia stanco, mi metto a passeggiare prendendo un po’ di svago, per cacciare tanti tristi pensieri, contemplando ogni tanto quel cielo coperto di stelle, con un bel chiaro di luna che è una meraviglia a vederlo. Passeggiando sempre con un mio buono amico faccio questi ragionamenti: se fossi stato a casa mia…! Chi era più contento di me…? Almeno potevo essere sotto le cure dei miei cari genitori. Sempre parlo di voi!… Mai vi potrò dimenticare. Ogni volta che parlo il pensiero mi rende triste, e se non avessi questo buon amico che mi distrae, che mi cambia discorso, soffrirei molto e starei male, fortunatamente mi fa stare calmo e contento, e per questo mi trovo bene, e non state in pensiero. Coraggio…! Coraggio Babbo: che presto potremo rivederci e stare assieme, non prendetevela di nulla se ho voluto farvi un piccolo racconto su questo fiore.
Voi pensate di tenerlo ben di conto, che a un mio ritorno potrò raccontare altre cose.
Venendo in risposta alla vostra lettera e cartolina, oggi stesso l’ho ricevuta e credete che fu tutta la mia contentezza di sapere che avete ricevuto la mia fotografia. Avrete veduto come sto bene. Dunque non c’è da prendersi di nulla, e speriamo presto di scrivere da Gorizia come mi dite. Io non posso scrivervi perché ancora non mi sono trovato a nulla, ma se qualora dovessi battermi sarebbe tutto il mio entusiasmo. La Guerra che si combatte, è una Guerra santa e giusta. Voi mi direte: come mai la trovo giusta! Per farvene un’idea il soldato oggi si trova di fronte a un nemico traditore e vile. Bisogna fare tutti i sacrifici più possibili e immaginari. Speriamo Babbo che a Natale vi mandi l’augurio da Vienna e vi scriva una lettera sulla splendida vittoria Italiana. Oggi è l’ora che la nostra bella Patria si ingrandisca. Grazie del vostro augurio. Speriamo che sventoli davvero sulle guglie del duomo di Vienna il vessillo nostro in segno di pace e di liberazione in quei popoli, che fino ad oggi sono sotto il dominio dell’Austria. L’ora è sonata per Francesco Giuseppe, e la vittoria nostra è certa. Altro non ho da dirvi, terrò di conto il vostro buon augurio, come voi tenete di conto questo fiore. Vi ringrazio tanto delle vostre buone idee che avete e speriamo presto siano vere. Colla speranza di presto rivedervi vi saluto con affetto voi, la mamma, Rosilde e Fiore.
Vi bacio tanto, vostro figlio.
Terzo.
10) La Voce del Popolo, Pescia 16 ottobre 1915, parte di una lettera che il soldato Terzo Vezzani di Stignano indirizza al proprio Padre.
[N.d.R. Abbiamo voluto pubblicare integralmente questa lunga lettera e non abbiamo nemmeno voluto correggere degli errori di ortografia e di sintassi. E’ tanto vera nella sua fresca semplicità, che, ritoccandola, avremmo creduto di sciuparla.]

Come abbiamo potuto appurare da una parte di questa lettera, appena trascritta, i sentimenti di questi soldati nei confronti della propria famiglia, e della propria terra d’origine, raggiungevano dei connotati identificativi ben definiti.
Ma non stiamo esaminando una Guerra che aveva esclusivamente racchiuso le persone unicamente all’interno della loro Piccola Patria, no. Questo conflitto mise in rapporto molti individui, da ogni angolo d’Italia, sia al fronte che non, che altrimenti non si sarebbero potuti conoscere. E le donne ebbero un ruolo fondamentale nelle vicende umane dell’epoca, nell’aiutare Cristianamente il prossimo, non soltanto come Madri e come Mogli.
Infatti, in quel di Pescia, le cucine economiche funzionavano con crescente successo, dando la refezione, oltre che alle donne bisognose, private dei loro uomini che erano a combattere, anche ai fanciulli dei soldati richiamati. La signorina Romagnani era l’anima di questa Istituzione. Alcune signorine si occupavano della corrispondenza, altre procuravano del lavoro alle donne rimaste senza l’appoggio di un uomo in casa. Molte di queste, tra le quali vi erano anche molte nobildonne, facevano i turni, presso la sede del Comitato di Soccorso in Tempo di Guerra, per informazioni, sussidi, collocamenti. Le donne che aderivano alla Pro Patria, una emanazione della federazione femminile Toscana, lavoravano attivamente, tanto che molte signore, tra le quali la moglie del sotto Prefetto, erano occupate per delle intere giornate. Il Comitato della Croce Rossa, che poteva vantare su di un numero considerevole di dame, e aiuto infermiere, aveva impiantato un Ospedale di 100 letti, la signora Marchetti-Ducceschi aveva offerto una sua villa, e una parte della popolazione Pesciatina aveva offerto l’arredamento. Squadre di signorine raccoglievano delle offerte per fare in modo che la cittadinanza coinvolta fronteggiasse i bisogni che lo stato di Guerra era riuscito a creare nelle famiglie Pesciatine. Molte si erano iscritte per garantire la sorveglianza ai bambini, per opere di pronto soccorso ai feriti, per alcuni lavori di dattilografia, etc.
Anche le Convittrici della Scuola Normale avevano offerto ai soldati sigari, sigarette, vino, cartoline, e fiori.
Vi è un’epistola in particolare, scritta dal soldato Raimondo Zuddas di Tortoli – paese che all’epoca faceva parte della provincia di Cagliari, ma attualmente è inserito nel territorio della provincia dell’Ogliastra -, ad una signora Pesciatina volontaria presso il Comitato della Croce Rossa, che ci fa comprendere i legami d’amicizia e d’affetto che potevano instaurarsi, in quel contesto storico, tra gli esseri umani provenienti da ogni parte d’Italia.

Il soldato Zuddas Raimondo scrive ad una signora di Pescia.Tortoli, provincia di Cagliari. 14.10.1915
Illustrissima signora.
Con gentilezza rispondo alla sua desiderata lettera che ho ricevuta il giorno 13 corr. e quindi mi rallegro tanto nel sentire che si trovano tutti sani, come ancora posso assicurare di me che in grazia di Dio mi trovo bene in famiglia, ma ho terminata la mia libertà e devo partire il giorno 20. Spero sempre, con l’aiuto di Dio e della Madonna, di essere salvo dai pericoli. Ma però io ho sempre lo stesso entusiasmo e voglio l’onore di ritornare sul campo di battaglia per difendere la nostra Nazione. Non mi importa niente di perdere la vita. Al campo di battaglia ci stanno anche i miei fratelli e quindi voglio raggiungere il mio reggimento. Quando sarò al mio reggimento scriverò subito a lei e ancora alle dame della Croce Rossa, perché mi ricordo sempre dei loro benefizi che mi hanno fatto. E’ troppo quello che loro fanno, e non dimenticherò mai il bene che mi fecero. Non si sa come si andrà e se ci rivedremo in questa vita, ma le ricorderò sempre. Noi abbiamo l’onore di combattere, e loro quello di essere tanto utili a noi. Io ricorderò sempre le dame della Croce Rossa Italiana, e dico che devono avere la riconoscenza nostra, e di tutta la Nazione! Il mio entusiasmo è grande come l’onore di dare il mio sangue per la Patria. Sofrii molto per la ferita, ma non importa! Fui ferito sul campo dell’onore, e sono contento, e fino all’ultimo momento griderò: viva l’Italia, ma griderò ancora, viva la Croce Rossa di Pescia. Quando la ricordo mi sento commosso pel grande bene che ebbi, e benedico lei e la ricordo come una vera Madre, e sono grato a tutte. Penso alla santa caritatevole giornata di tutte le dame della Croce Rossa, alla bontà, alle cure, alle fatiche per noi, e le parole non rispondono alla gratitudine del mio cuore. Altro non mi resta che salutare con vero cuore, e con gratitudine tutte le signore e signorine, e tutti i miei compagni. Invio a lei saluti e ringraziamenti, e mi firmo per sempre suo amico.
Raimondo Zuddas
10) la Voce del Popolo, Pescia 23 ottobre 1915, parte di una lettera che il soldato Raimondo Zuddas di Tortoli scrive ad una signora, volontaria del Comitato della Croce Rossa di Pescia.

Come abbiamo verificato dalla lettera sopra riportata i legami identificativi tra i vari territori della ‘Nazione Italiana’ erano forti, all’epoca, e molto consolidati, più di quanto non si possa pensare di credere. Il corpo unitario che incarnava all’interno della ‘Grande Nazione Italiana’ le piccole Patrie locali dei soldati in zona di combattimento, come lo era nel nostro caso l’identità Pesciatina, era rappresentato dalla tradizione Cristiana che con le sue varie ramificazioni, presenti sul suolo Italiano, riusciva a rappresentare una forma identificativa forte e, soprattutto, consolidata nella storia dell’Italia contadina, dove la vita era certificata dallo scorrere delle stagioni, ognuna delle quali aveva una precisa connotazione simbolico-religiosa. Inoltre il Pater Familias, di questi nuclei mezzadrili, assurgeva ad una sorta di figura simbolica nel contesto familiare, figura che i soldati contadini ricercavano sia nei Cappellani Militari presenti al fronte, che nei Sacerdoti dislocati nelle Parrocchie dei loro paesi d’appartenenza, i quali fungevano da fulcro tra il militare e la famiglia d’origine. In alcuni casi lo stesso Re Vittorio Emanuele III si manifestava, nell’immaginario collettivo di questi giovani combattenti, come una sorta di icona Patriottico-Religiosa. Una Guerra che per molti soldati era una causa Santa, voluta dalla Divina Provvidenza, e che andava portata a termine vittoriosamente per salvaguardare le proprie tradizioni storico-culturali. L’Italia, a detta di molti combattenti Italiani – come abbiamo accertato in queste lettere – aveva una missione sacra da compiere, una missione voluta da Dio, che si doveva concludere con l’autodeterminazione dei popoli, e la liberazione delle terre irredente. Tutto questo stratagemma organizzativo era stato elaborato da numerosi intellettuali, favorevoli all’entrata in Guerra e alla liberazione delle terre occupate dagli Austriaci, ed era entrato a far parte dell’immaginario collettivo sia dei militari, di stanza al fronte, che delle loro famiglie.
La chiesa Cattolica, suo malgrado, fu chiamata in causa dagli intellettuali dell’epoca, ma l’organizzazione Ecclesiastica agì non in base alla mitologia identificativa elaborata dalla maggior parte degli intellettuali di questo periodo storico, ma in riferimento al proprio credo Cristiano, basato sulla misericordia e sulla pietas. Infatti, sia i Cappellani Militari che i Sacerdoti aiutarono i soldati e le loro famiglie a superare lo sradicamento dei congiunti dalla loro terra d’appartenenza, imposto dalla Guerra. E anche i Comitati, come quelli della Croce Rossa, si adoprarono per aiutare Cristianamente il prossimo. La religione Cattolica fu chiamata in causa dal volere ingegnoso degli intellettuali, ma reagì interpretando non le intenzioni del Nazionalismo imperante, ma i voleri della carità Cristiana. Non dimentichiamoci, inoltre, che il sommo Pontefice Benedetto XV si dichiarò sempre, e comunque, contrario alla Guerra, ma i suoi appelli furono ripetutamente inascoltati dal governo Salandra e, anzi, in alcuni casi Benedetto XV fu accusato, dagli uomini favorevoli al conflitto, di essere vicino alla propaganda pacifista dei Socialisti.
Come si è ripetutamente detto questi giovani uomini, e le loro famiglie, senza l’aiuto dell’organizzazione Cattolica si sarebbero sentiti soli, sradicati dalla propria cultura d’origine, perduti all’interno del loro destino. Ma i credenti, con la loro capillare organizzazione, si fecero promotori di un’opera di nobile misericordia incarnata, tramite i Sacerdoti i Cappellani Militari e i vari Comitati – come quelli della Croce Rossa -, nella pietas Cristiana.
Questo è quanto traspare da un’analisi, scevra da pregiudizi, sia delle lettere sopra menzionate, che delle missive non ricordate che si possono scoprire sempre sulla Voce del Popolo di Pescia, e sugli altri organi di stampa presenti all’epoca sul territorio, nonché all’interno di molte lettere delle quali sono proprietari i discendenti diretti di questi militi. Questa osservazione è efficace sia per le tante Patrie locali, inclusa quella Pesciatina, che per la Grande Patria Nazionale.
Si deve considerare, inoltre, che lo scoppio della Prima Guerra Mondiale pose fine all’interpretazione filosofica di molti scienziati, i quali affermavano che il progresso rappresentato dal sapere, con le relative scoperte tecnologico-scientifiche, avrebbe condotto gli uomini sulla via della felicità. Ma questa teoria fu contraddetta dallo scoppio del conflitto.
La scienza doveva condurre l’uomo sulla via della riflessione, evitandogli ogni problema terreno. Ragion per cui la fede in Dio non aveva più una logica nel sussistere. Ma questo era stato negato dalla storia.
La scienza è una forza, creata dall’ingegno dell’uomo, che fa sembrare le persone onnipotenti. Comunque essendo una forza, in quanto tale, può essere impiegata a fin di bene, ma anche a fin di male. Di per sé la scienza non ci rende ne buoni ne cattivi. Va da sé, dunque, che all’uomo non serve la scienza per essere più buono. Ci vuole qualcos’altro: la fede in Dio, con la sua giusta sanzione morale. Anche questo emerge dall’analisi delle lettere Pesciatine dal fronte. La Grande Guerra ci ha illustrato ampiamente un tale argomento, poiché la scienza aggiunge alle barbarie maggiori mezzi di distruzione. Infatti, come tutte le forze create dall’uomo, in quanto tali, la scienza non è una direttrice, ma uno strumento, con il quale possiamo fare sia il bene che il male. La scienza, in quanto forza creata dall’uomo, impiegata bene ci farà potenti, e creerà benessere, come nel caso di molte scoperte che hanno migliorato il nostro tenore di vita, ma impiegata male ci farà deboli, e creerà distruzione, come nel caso della Prima Guerra Mondiale. Solamente la fede può condurre l’uomo sulla via della misericordia e della fratellanza cristiana. Tutto ciò è presente, ed emerge con chiarezza dalle lettere Pesciatine dal fronte.
Portiamo a termine questo nostro cammino, all’interno della storia dei nostri ‘padri’, con una lettera incantevole, nel profondo della propria semplicità. In questa epistola il milite in questione ci elenca, con lucida consapevolezza, sia gli eventi del suo passato e del suo presente, che del nostro futuro. E lo fa con una purezza unica, irripetibile, che gli derivava dal senso di appartenenza che egli provava sia per la propria origine locale, che per la propria Nazione Italiana. Ma in questa missiva si denota anche, e soprattutto, un immenso senso d’adesione alle sue specifiche origini Cristiane, che nemmeno gli eventi bellici erano riusciti a scalfire, anzi. Il nostro si interroga continuamente sul senso della precarietà della vita, ed ha delle reminiscenze sulla sua infanzia, che gli fanno ricordare l’amore per le proprie radici Cattoliche. In un passo del suo scritto egli afferma che la Guerra ha reso devoti i soldati per la delusione provocata dagli uomini. La distruzione, il sangue, le stragi, li hanno convinti che le opere degli uomini sono fragili e vacillanti. Il vento della Guerra ha dissipate le nubi ed è apparsa maestosa la montagna, inaccessibile, scintillante. Laddove risiede l’infinita misericordia della fede Cristiana.
Non mancano i riferimenti ai dialoghi avuti con Dio, attraverso le preghiere: “quando l’anima si confida in Dio, cade il nostro orgoglio, ci sentiamo umili, figli dell’infinito, la morte non fa paura e l’idea di rimanere uccisi per il bene dei superstiti e della gente nostra ci appare così alta e generosa nella mente che ci inebria come un calice di vino generoso.”
Nella parte finale del suo scritto il combattente in questione ha come delle visioni, derivategli dalla propria intelligenza, con le quali riesce a prevedere il futuro, con una precisione, a dir poco, disarmante. In un brano della sua epistola fa una critica indiretta all’Impero di Roma, che era stato foriero di sventure sia per i popoli che aveva assoggettato, durante la propria storia, che per le persone meno abbienti del suo Stato. Il nostro ci ricorda le prime catacombe, quelle immense e strane gallerie, capricciose, umide, tetre, da dove i primi cristiani fecero sorgere l’idea che rivoluzionò il Mondo. Egli paragona le trincee dei soldati alle catacombe: “[…] e penso che noi soldati d’Italia siamo grandi quanto i primi martiri. Ho fiducia che dalle trincee nostre e degli alleati sorga salda e incrollabile l’idea della giustizia e della forza del diritto.” Mai previsione fu tanto veritiera: all’indomani della fine del conflitto il presidente statunitense Thomas Woodrow Wilson, fervente cristiano, si fece promotore della nascita della Società delle Nazioni, progenitrice dell’Onu, basata sull’autodeterminazione dei popoli, sull’idea della giustizia, e sulla forza del diritto; il tutto in nome di quei soldati che erano caduti sul campo di battaglia, durante la Grande Guerra. E come possiamo omettere un passaggio di notevole spessore con il quale il militare continua a prevedere il futuro: “Un altro pensiero mi prende. Come il seme ha bisogno di rimanere nella terra per schiudersi, così la vittoria definitiva della terra, della terra Italia, si prepara nella terra delle sue trincee, dai suoi soldati, i quali della Guerra conoscono i sacrifici e le glorie, le rinunce e le liberazioni, gli abbracci e le lacrime, le intemperie, il sangue e le preghiere.”
Volutamente non ho indicato le generalità dell’autore di questa splendida lettera, poiché i sentimenti che egli ci trasmette sono universali, e ci lasciano in eredità una sorta di comunicazione testamentaria, la quale ci fa ricordare che noi tutti, al di là delle nostre opinioni politiche che possono essere anche divergenti, dobbiamo a questi ragazzi una sola cosa, che si scrive e si pronuncia con una sola parola: rispetto.
Concludo con l’epistola in questione – la Voce del Popolo, Pescia 4 dicembre 1915 – trascritta nella sua stesura completa, che vi consiglio di leggere tutta d’un fiato, facendovi accompagnare dai vostri sentimenti.

Cappellano carissimo.
Da quando partii col mio reggimento per il fronte, più volte avrei avuto la buona intenzione di scriverle, e avrei fatto questo se l’idea mia non fosse stata di scriverle una lunga lettera dove stasse racchiuso un qualcosa della vita che si mena dal soldato italiano in guerra.
Volentieri lasciammo alle spalle i nostri cari, i nostri beni, per volgere il petto verso il nemico. Non ci troviamo adesso più lindi e precisi come allora, ma siamo sempre fieri ed allegri come all’arrivo in trincea.
Io mi trovo sempre nella compagnia con la quale lasciai Firenze, il Capitano è ancora il primo che ho avuto e che tanto amo, come tutti i superiori del mio Reggimento. Una sola cosa è cambiata dal tempo di pace, che è l’idea di morire. Con questa però è nata nei soldati tutti, la voglia, il bisogno di pregare. Tutti abbiamo cercato aiuto in Dio.
L’idea della fine era così lontana nei giorni di pace! La bella gioventù, i belli amori, davano l’esuberanza, la irrequietezza nei nervi, nel sangue e l’idea di morire era lontana come i capelli bianchi e gli acciacchi della vecchiaia. Fu la guerra che infuse un precoce senso spirituale della vita, e certi problemi abbandonati con gaia noncuranza si sono riaffacciati nitidi ed incalzanti.
Il morire per la Patria è bello; ma pure il pensiero “fra una settimana, un mese, morirò” intristisce la mente. Dietro a questi pensieri ci poniamo a pensare, a meditare e diamo uno sguardo retrospettivo alla vita. Ricordando il passato, nasce una nostalgia di certi anni spensierati e liberi; si ricordano delle ideucce infantili strane, ingarbugliate, fantastiche. Allora si era più buoni, non si sapevano tante cose, si rideva di più, la vita era migliore, si pregava allora. E adesso, coll’animo un po’ commosso si dice: “Proviamo a pregare ancora.” E la memoria rintraccia le orazioni imparate da bambino. Sorge benefica l’ombra materna. Lei sorridente ci insegnò a fare il segno della croce, ci unì le minuscole palme delle mani e mostrandoci l’Angelo candido, serafico, con le grandi ali aperte: “Dì al tuo Angelo che ti aiuti!” E noi dietro alla mamma “Angelo del Signore….. .”
Oggi, nel pericolo, ricordando, si ripetono le parole antiche. Solo la preghiera creda ci è di sollievo, e ci prepara con serenità a qualunque sacrificio. Quando l’anima si confida in Dio, cade il nostro orgoglio, ci sentiamo umili, figli dell’infinito, la morte non fa paura e l’idea di poter restare uccisi per il bene dei superstiti e della gente nostra ci appare così alta e generosa nella mente che c’inebria come un calice di vino generoso.
La guerra ci ha reso devoti anche per la delusione dataci dagli uomini. La distruzione, il sangue, la strage ci convincono che le opere degli uomini sono fragili e vacillanti.
Il vento della guerra ha dissipate le nubi ed è apparsa la montagna, maestosa, inaccessibile, scintillante.
Il giorno due del corrente mese ero di passaggio a Cormons. Ricorrendo la commemorazione dei morti e avendo del tempo a disposizione non mancai di recarmi nella bella Chiesa di quella città, e fu lì appunto che vidi dei soldati pregare. Il tempio, con le sue luci tremolanti, i grandi drappi pendenti di porpora regale, le colonne, le penombre, gli archi arditi, il silenzio, le croci, i santi, l’aria densa d’incensi, stringevano l’anima, la suggestionavano la portavano nelle profonde regioni del pensiero. In quell’ambiente mistico e solenne ebbi una nuova impressione intima e delicata sulla vita del soldato. Molti compagni sviati dalla vita attiva e scettica, ricordavano a stento le orazioni imparate da fanciulli; alcuni non ne rammentavano una sillaba, ma pregavano rivolgendosi alla Divinità con parole e sentimenti sgorgati lì per lì dal cuore commosso e caldo. Tutti avevano in comune un pensiero gigante “Dio, l’oltre tomba.”
Non solo in Chiesa però ho veduto pregare. Si prega pure in altro posto dove non vi sono né luci, ne apparati, né profumi d’incensi. E’ in trincea!
Là, dove si è a contatto con la terra, che da un momento all’altro può divenire tomba. Là dove passa la morte e dove questa giunge spietata e divide l’amico, dall’amico. Là, dove oggi, domani si può andare a trovare il morto d’ieri. Ogni zolla conosce il sacrificio, le malattie, lo strazio, e, nel tragico canale oltre gli ardori, le rabbie superbe, gl’impeti magnifici, i disprezzi eroici, nasce il bisogno di pregare, di chiamare qualche aiuto fuori della vita. Quasi, quasi si vorrebbe che il Signore fosse un nostro alleato. E’ tanto giusta, tanto santa la nostra causa! Può egli disconoscere ciò che è giusto, ciò che è Santo? Come sgorga spontanea l’invocazione all’Altissimo! Egli conosce e vede i nostri dolori e pericoli.
Le trincee mi fanno pensare alle catacombe romane, a quelle immense e strane gallerie, capricciose, tetre, umide, da dove sorse l’idea che rivoluzionò il mondo; e penso che noi soldati d’Italia siamo grandi quanto i primi martiri.
Ho fiducia che dalle trincee nostre e degli alleati sorga salda ed incrollabile l’idea della giustizia e della forza del diritto.
Un altro pensiero mi prende. Come il seme ha bisogno di rimanere nella terra per schiudersi, così la vittoria definitiva della terra Italia si prepara nella terra delle sue trincee, dai suoi soldati, i quali della guerra conoscono i sacrifici e le glorie, le rinunce e le liberazioni, gli abbracci e le lacrime, le intemperie, il sangue e le preghiere.
Giunge in questo momento l’avviso improvvisamente di partire subito per la grande azione. Speriamo bene!…
In fretta lo lascio nella speranza di scriverle ancora. Saluti la mia famiglia.
Un abbraccio dall’aff.mo suo.

* Dedico questa mia relazione scritta, lettere Pesciatine dal fronte, a mio figlio Nicolò, il quale ha origini pesciatine per un quarto, in quanto sua nonna materna Giovanna Ulivieri, una delle donne più buone e oneste che io abbia mai conosciuto, è originaria di Vellano. Figlia di Ferruccio – un ragazzo del ’99 che aveva combattuto, dopo la disfatta di Caporetto, sulle montagne del Carso – e di Giuseppina Pacini di Sorana.

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