Da Gregorio XVI a Pio IX
Il 1° giugno del 1846 muore papa Gregorio XVI Pontefice intransigente ed antiliberale. Il 16 giugno viene eletto Papa il cardinale Giovanni Maria Mastai-Ferretti con il nome di Pio IX, che passerà alla storia come il Papa del Sillabo, dell’anti-liberalismo e dell’anti-modernità.
 
“Il Papa non può né deve venire a patti con il liberalismo, la modernità e il progresso” è l’ultima delle 40 tesi del suo Sillabo (8 dicembre 1864), ove per “progresso” si intende il “progressismo” e non il sano sviluppo o la crescita tecnica, scientifica, economica e filosofica omogenea, costantemente ammessa e sempre favorita dalla dottrina cattolica.
Le tendenze inizialmente conciliazioniste di Pio IX
Inizialmente, però, dal 1° luglio del 1846, appena 2 settimane dopo la sua elezione, sino alla fine dell’aprile del 1848 Pio IX pone degli atti che lo fanno passare alla storia come Papa inizialmente e tendenzialmente “liberale”, portato poi dalle circostanze storiche alla contrapposizione non voluta né cercata con il liberalismo. Vediamo come e perché.
Il suo primo Segretario di Stato pro tempore scelto subito dopo l’elezione, monsignor Giovanni Corboli Bussi, era molto ascoltato da Pio IX nei primi anni del suo pontificato e viene descritto dagli storici come un prelato aperto alle idee della modernità[1].
Inoltre il Papa era di carattere buono, mite ed incline alla moderazione[2]; di suo era favorevole alla concessione persino di un indulto ossia di una amnistia per i reati politici. Tuttavia nominò una commissione di sei cardinali per discutere il problema.
Il Collegio cardinalizio diviso in due
Durante la prima riunione cardinalizia convocata da Pio IX (1° luglio 1846) in seno alla commissione si trovarono due anime contrapposte. L’ala intransigente, capeggiata dal card. Lambruschini (ex Segretario di Stato di Gregorio XVI), era fortemente contraria all’amnistia o al cosiddetto “indulto” verso i rivoltosi politici poiché tale atto all’inizio del nuovo pontificato sarebbe stato interpretato come una “rottura” con la prassi precedente di papa Gregorio XVI, anzi avrebbe potuto significare addirittura che i reati politici non erano da considerarsi colpe morali. Ma Lambruschini fu messo in minoranza e Corboli Bussi la spuntò con l’appoggio di papa Mastai, del quale appare, agli inizi del pontificato, “uno dei principali ispiratori”[3]. Dunque il 16 luglio, appena un solo mese dopo l’elezione di Pio IX, fu promulgata l’amnistia[4] proposta alla Commissione cardinalizia da Corboli Bussi.
La prima scintilla del 1846 appicca il fuoco del “Quarantotto”
Padre Giacomo Martina, storico gesuita della Pontificia Università Gregoriana, progressista ma profondo conoscitore del pontificato di Pio IX, scrive: “raramente la storia presenta il caso analogo di un provvedimento che, malgrado le sue modeste proporzioni, ha provocato reazioni così vaste, profonde, durature. L’amnistia fu la scintilla che, caduta sulle polveri, fece divampare l’incendio in tutta Italia e in larga parte d’Europa”[5]. Questa scintilla portò alle rivoluzioni europee del Quarantotto[6]. E fu proprio di fronte allo scatenarsi del “Quarantotto” che Pio IX muterà rotta diametralmente.
Altri atti di “apertura” di Pio IX
Dopo qualche mese di regno Pio IX, nell’agosto del 1846, scelse il suo vero e stabile Segretario di Stato, che rimpiazzò mons. Corboli Bussi, il quale era stato scelto “pro tempore” ed andava perciò sostituito.
Ora già in conclave si era fatto largo il cardinal Tommaso Pasquale Gizzi, uomo di idee riformatrici ed aperte ad un certo dialogo con la modernità. Pio IX lo sceglie quale Segretario di Stato e gli affianca Corboli Bussi quale Sottosegretario formalizzando le nomine l’8 agosto.
Andrea Tornielli nel suo libro citato in nota, divulgativo ma molto ben documentato, riferisce del nuovo “modo di fare di Pio IX vicino alle istanze popolari” (cit., p. 206), delle sue “improvvisate” (cit., p. 208) ed anche dei “significativi cambiamenti verso gli ebrei” (cit., p. 209). Infatti l’8 novembre 1846, quando Pio IX prese possesso della Basilica di San Giovanni in Laterano, “tutto il tratto di via dall’Arco di Tito al Colosseo era stato addobbato dagli ebrei, riconoscenti al Papa per i benefici che egli aveva elargito loro”[7].
Pio IX “avventato, rivoluzionario, liberale e carbonaro”?… il “mito” e la realtà
Si capisce perché l’atteggiamento del Papa venne considerato “avventato” da molti cardinali (De Angelis, Amiat, Lambruschini…) che erano rimasti fedeli allo spirito di Gregorio XVI e dei suoi predecessori[8]. Addirittura il cardinal De Angelis scrisse al cardinal Amiat: “siamo né più né meno alla rivoluzione in nome di Pio IX” (Lettera del 3 settembre 1846). Tornielli commenta: «cresceva il malcontento e la fronda interna alle stesse gerarchie contro il Papa considerato “un liberale”. Il Vescovo di Ancona, cardinale Cadolini, andava dicendo: “è stato eletto un Papa carbonaro”» (cit., p. 210).
In realtà bisogna distinguere. Infatti già con la sua prima Enciclica (Qui pluribus, 9 novembre 1846) Pio IX esprime e ribadisce la dottrina cattolica integralmente antiliberale. Tuttavia il suo carattere, il suo modo di fare, la sua “pastorale” sono stati caratterizzati nei primi due anni del suo lungo pontificato da una certa tendenza pratica al dialogo, al compromesso e al patteggiamento che più di una volta lo ha portato a qualche cedimento nei confronti della sovversione liberale.
Una lezione per i nostri tempi di crisi
Ciò non autorizza a criticare Pio IX come Papa formalmente “liberale”, anche se occorre riconoscere che i fatti da lui posti dal 1846 al 1848 sono impregnati da un tendenziale accomodamento con il liberalismo o la modernità. Poi la dura constatazione della perversa malizia dei liberali portò papa Mastai ad assumere posizioni pratiche e non solo teoriche sempre più intransigenti e ne ha fatto il “campione dell’anti-liberalismo”.
Qualcuno di fronte a tali atti si potrebbe scandalizzare e potrebbe dire: “Come può un vero Papa porre degli atti simili?”. Si potrebbe concludere, quindi, che Pio IX non era formalmente Papa poiché non voleva oggettivamente – dagli atti posti – fare il bene reale della Chiesa, ma omologarla alla Rivoluzione. Si potrebbe parlare di Sede vacante già con Pio IX, come l’abbé Charles Maignen lo fece nel 1892 con il Ralliement di Leone XIII alla repubblica francese[9].
Qualchedun altro, invece, si sforzerebbe di negare la realtà e di arrampicarsi sugli specchi per dimostrare che Pio IX non ha mai ceduto al dialogo con la Rivoluzione.
Questi modi di reagire per eccesso (Pio IX non era vero Papa) o per difetto (negare la realtà delle iniziali tendenze liberali in papa Mastai) sono irrealistici. Bisogna, allora, “conformare l’intelletto alla realtà” (Aristotele) e constatare che Pio IX all’inizio cedette al liberalismo, ma che dopo il “Quarantotto” lo combatté con tutte le sue forze. Egli era Papa sia nel 1846 come dopo il 1848, arrendevole tendenzialmente dal 1846 al 1848, ma stabile ed irremovibile dal 1848 alla sua morte (1878). Che l’esempio di Pio IX (1846-48) e di Leone XIII (1892) ci aiutino a reagire in maniera equilibrata di fronte alla crisi che attraversano gli uomini di Chiesa da circa 50 anni, senza negare la realtà e senza concludere alla vacanza della Prima Sede, tolta la quale tutto il resto crolla.
Il “mito” di Pio IX contro Leone XIII, Pio XI e Pio XII
Ora, se si fa un paragone tra Pio IX dal 1846 al 1878 e Leone XIII, Pio XI e Pio XII (accusati da certuni laudatori/accusatori “manichei” di papa Mastai e dei tre Papi sopra citati quali Papi “liberali” almeno in pratica, ma un pochettino anche nel loro insegnamento[10]), si deve constatare che il presunto liberalismo imputato agli ultimi tre Pontefici (per il Ralliement, la condanna dell’Action française e il carattere mite e diplomatico ossia “l’eresia bianca”[11] di papa Pacelli) è nulla rispetto ai “fatti” reali e non immaginari di Pio IX dal 1846 al 1848.
Non si capisce, quindi, il perché di tanta acredine, la quale più di storia sa di mitologia, e che va cercata in una tendenza segreta, occulta o esoterica verso il millenarismo gioachimita di alcuni di essi, che li spinge ad immaginare (non facendo Storia, ma raccontando “storie”) errori teorici e pratici in Leone XIII, Pio XI e Pio XII e a scusare totalmente Pio IX da un certo comportamento realmente ondivago e dialogante nei primi due anni del suo Pontificato.
La natura e la grazia in Pio IX
Certamente in Pio IX, che non era stato un prelato intransigente[12], si nota il trionfo della grazia sulla natura dopo il “Quarantotto”. Infatti per natura egli era tendenzialmente portato al dialogo, ma la grazia di Dio lo ha talmente rafforzato che è divenuto un leone nel combattere integralmente gli eccessi con i quali era sceso inizialmente a compromesso. Parimenti San Pietro nel 33 rinnegò Gesù e nel 49 ad Antiochia stava praticamente patteggiando con i “giudaizzanti”[13], però – ripreso pubblicamente da San Paolo – si corresse e nel 64 quando stava per essere crocifisso chiese di poterlo essere a testa in giù.
Gli ultimi “cedimenti” del 1847
Pio IX ancora nel marzo 1847, quando oramai la sovversione risorgimentale e liberal/massonica aveva buttato quasi totalmente la maschera in Italia e in gran parte d’Europa, dopo aver scritto al cardinal Amiat di non voler accettare la istituzione di una “Guardia civica” impostagli dai liberali, la istituì il 16 giugno del 1847, dopo appena 3 mesi[14].
Di fronte al nuovo cedimento di Pio IX anche il fedelissimo e non intransigente cardinal Gizzi, Segretario di Stato, rassegna le sue dimissioni nei primi giorni del luglio del 1847[15]; Giovanni Corboli Bussi resta Sottosegretario e Pio IX al posto di Gizzi nomina suo cugino, il cardinal Gabriele Ferretti (Vescovo di Rieti), Segretario di Stato.
Dalla Domenica delle Palme (1846/47) al Getsemani: il 1848
Il 1° gennaio del 1848 la folla, spinta dal noto capo-popolo e agitatore di piazza Ciceruacchio, si raduna in piazza del Quirinale sotto il palazzo Apostolico e chiede a viva voce che Pio IX si affacci a benedirla (assieme alla “rivoluzione”). Pio IX inizialmente si rifiuta, ma per evitare che la manifestazione degeneri cede e il 2 gennaio esce dal Quirinale in mezzo alla folla che lo acclama in quanto “Pio IX” e non in quanto Papa. Ciceruacchio gli grida: “Santo Padre, affidatevi al popolo!”[16].
L’ordine pubblico entra nel caos e il capo della polizia, monsignor Morandi, si dimette anche lui. Qualche giorno dopo anche il cardinal Ferretti, cugino del Papa, si dimette e viene rimpiazzato con il cardinal Giuseppe Bofondi[17].
Nel febbraio del 1848 scoppiano moti rivoluzionari in tutta Europa, partendo da Parigi (23 febbraio), Vienna, Berlino, Francoforte, Milano, Venezia.
Il 17 febbraio 1848 il Papa (consigliato da monsignor Corboli Bussi) decide di concedere (14 marzo) la Costituzione a Roma, concepita secondo un’idea del potere temporale del Papa, temperata da una consulta con poteri deliberativi. “In quel testo si consacrano la maggior parte delle libertà moderne, fatta eccezione per quella di culto e di propaganda”[18]. Si dimette anche il quarto Segretario di Stato il cardinal Giuseppe Bofondi che viene rimpiazzato dal cardinal Giacomo Antonelli.
I catto/liberali: Rosmini, Gioberti e Ventura
Frattanto la Sovversione, che ha “per padre il diavolo” (Gv., VIII, 44), come lui non è mai sazia e vuol sempre di più. Quindi incalza Pio IX e il 21 marzo del 1848 gli chiede di capeggiare la “crociata” contro Vienna sospinta da Rosmini[19], Carlo Alberto di Savoia e Cavour. Monsignor Giovanni Corboli Bussi è favorevole come Rosmini e il 24 marzo le truppe pontificie lasciano Roma per raggiungere le Alpi ai confini con l’Austria, sotto il comando militare del generale piemontese Giovanni Durando ed il suo aiutante Massimo D’Azeglio[20].
“Con Gioberti e Rosmini, padre Ventura rappresentava il trio dei sacerdoti riformatori verso i quali Pio IX non nascondeva le sue simpatie. […]. Il padre Gioacchino Ventura seguì un itinerario analogo a quello di Lamennais: da un tradizionalismo fideista ad un altrettanto fideista democraticismo”[21].
O con Dio o con Mammona
Ma qui si apre lo spartiacque. Infatti mentre Pio IX voleva la difesa dell’Italia contro un’eventuale invasione da parte dell’Austria, i rivoluzionari, Rosmini[22] e monsignor Corboli volevano che le truppe pontificie aggredissero l’Austria assieme alle truppe del Regno sabaudo.
Il Papa disse allora chiaramente che come Pastore universale della Chiesa non poteva dichiarare guerra ad una Nazione sua figlia. Egli, circa un mese prima, aveva promulgato già un motu proprio “Benedite gran Dio l’Italia!” (10 febbraio 1848) e in esso chiedeva che Dio le conservasse ciò che di più prezioso l’Italia aveva: “la Fede!”, e non la sua indipendenza dall’Austria a scapito della Fede. Papa Mastai non si era, dunque, messo a capo della “crociata” contro l’Austria (24 marzo), come volevano i Savoia, i cattolici/liberali (Corboli, Rosmini, Gioberti e Ventura), Mazzini, Garibaldi, Cavour e tutti gli altri rivoltosi. Egli non era contrario all’unità della Penisola, ma sotto la direzione della Fede in Cristo e della sua Chiesa. Qui si divaricò il fronte e si fece chiarezza[23].
Pio IX sceglie Cristo e rifiuta Mammona
Infatti Pio IX questa volta, di fronte alle pressioni che volevano che dichiarasse una guerra contro l’Austria e gli Austriaci, si mostrò irremovibile tanto quanto era stato cedevole prima. Quindi il 29 aprile 1848 pronunziò l’Allocuzione famosissima “Non semel” per dimostrare che il suo motu proprio del 10 febbraio “Benedite gran Dio l’Italia!” era stato volutamente malinteso dai rivoltosi in senso anti-austriaco, mentre era solo favorevole ad un’ equa realizzazione dell’unità politica dell’Italia, la quale era già una di lingua, di religione e di cultura. Nella “Non semel” dichiarava a chiarissime lettere di non poter dichiarare guerra ad una Nazione cristiana.
Crucifigatur!
Questa Allocuzione segna la fine del mito del Papa “liberale”, mito non senza un certo fondamento nella realtà, date le tergiversazioni, i cedimenti e i compromessi in cui era caduto per due anni. A maggio in Roma si scatena la rivolta contro Pio IX e la Guardia civica occupa Castel Sant’Angelo.
A Roma si vive nel caos. Nell’ agosto del 1848 Pio IX nomina capo del governo romano il conte Pellegrino Rossi, che viene ucciso il 15 novembre dai rivoluzionari e il 24 novembre Pio IX lascia Roma e si rifugia a Gaeta ospite dei Borboni.
Luci e ombre rendono più bella l’immagine di Pio IX
Per concludere si notano realmente in Pio IX delle tendenze e fatti inizialmente filo/liberali, ma ciò non inficia il suo Pontificato, riscattato a partire dal 1848, da ogni ombra. Non è corretto nascondere le ombre e i limiti umani di un Santo (vedi per esempio il Re Davide, S. Maria Maddalena e S. Pietro) per esaltarne solo le qualità, quasi fosse una “Divinità”. Nei quadri le ombre fanno risaltare meglio alcuni colori che divengono ancor più luminosi. Se il dipinto fosse tutto un’ombra o tutta luce senza alcuna sfumatura e temperamento di tonalità sarebbe uno sgorbio, come una sinfonia dalle note tutte eguali.
L’elemento divino/umano nella Chiesa e nei Papi Vicari di Gesù vero Dio e vero uomo
Nella pratica e nel governo della Chiesa ogni Papa ha il suo modo di agire conforme alla sua personalità. Nel secolo XX vi sono stati dei grandi Papi che, pur con differenze accidentali, hanno perseguito sostanzialmente il medesimo programma: la restaurazione del Regno sociale di Cristo e la lotta contro gli errori della modernità. Ciò vale sia per Gregorio XVI, Pio IX e Pio X che per Leone XIII, Pio XI e Pio XII. Volerli contrapporre significa essere affetti da strabismo ideologico e da pregiudizi a-teologici ed anti-storici.
Leone XIII e S. Pio X continuano la politica di Pio IX in Italia in maniera diversa: più intransigente con Leone XIII e più mite con Pio X
L’unità politica dell’Italia si era conclusa in maniera rivoluzionaria ed usurpatrice degli Stati pontifici e del Regno delle Due Sicilie. Essa fece perciò sorgere, col passaggio ad un nuovo regime che era tirannico di usurpazione, un caso di coscienza: la cosiddetta Questione romana. I Papi dal 1870 sino all’11 febbraio del 1929 protestarono tutti in egual modo quanto alla sostanza, anche se con differenze accidentali di modalità, riguardo all’invasione di Roma.
Il non expedit. Gli intransigenti e San Giovanni Bosco
La questione di coscienza era la seguente: potevano i cattolici cooperare con il governo usurpatore sabaudo, specialmente quanto all’ esercizio di voto per le elezioni politiche, in cui gli elettori scelgono i Deputati del Parlamento e del nuovo governo? Ciò non significava accettare – almeno indirettamente o praticamente – la liceità del nuovo governo?
Ancor prima del 1870 e del pronunciamento ufficiale della Santa Sede alcuni cattolici intransigenti (don Margotti, L’Armonia, Torino; Id., L’Unità Cattolica, Firenze) si schierarono per il no: “Né eletti né elettori”; mentre altri erano possibilisti. Per esempio don Bosco secondo cui il partecipare alle elezioni politiche non è e non può, in sé, essere considerato illecito o immorale. Infatti se si osservano attentamente i risultati del non expedit bisogna ammetter che essi hanno ottenuto soltanto di “aver resa possibile ed anche facile l’attuazione di qualsiasi misura anche la più vessatoria contro la Chiesa” (G. B. Lemoyne, Vita di San Giovanni Bosco, Torino, SEI, II ed., 1977, 2° vol., p. 78).
Don Bosco riteneva altresì che nei primi momenti dell’usurpazione dello Stato pontificio da parte dei Savoia si potesse e dovesse resistere mediante “una provvisoria e momentanea astensione per dimostrare una dignitosa protesta contro l’usurpazione” (G. B. Lemoyne, cit., p. 78) e per vedere se si potesse intaccarne la stabilità, ma, una volta affermatosi e consolidatosi il potere usurpatore, secondo don Bosco “ogni uomo ragionevole deve capire, che se la Società non può rinunziare al diritto di esistere, non può neppure rinunziare ai mezzi essenzialmente necessari al mantenimento della Società, affinché non si cada nell’anarchia” (ivi).
Dunque, per don Bosco, “partecipare al potere legislativo, con coscienza cattolica, è cosa moralmente buona ed ordinata al bene comune sociale e temporale e anche quando ne seguisse il consolidamento del potere usurpatore, ciò avverrebbe in maniera indiretta e non voluta di per sé e sarebbe un male molto meno grave dell’ anarchia e della rivoluzione sociale e civile” (G. B. Lemoyne, cit. p. 79).
Don Bosco capiva benissimo l’equivoco per cui si ritiene che un deputato cattolico entrando in un parlamento liberal/ massonico approvi tutta la legislazione esistente e risponde: “non l’approva ma lo prende come un fatto compiuto [da altri] e cerca di servirsene per cambiarlo, promulgando leggi che facciano il bene ed evitino il male, grazie a quell’istinto insito nella natura umana che si chiama conservazione sociale” (ivi). Infatti l’uomo “per natura è un animale socievole” (Aristotele) e per natura tende a conservare la Società civile ed ad impedirne il dissolvimento anarchico. Se invece i cattolici non cercassero di raddrizzare la legislazione di un parlamento massonico in uno Stato al 90% cattolico, contribuirebbero al disfacimento rivoluzionario delle ultime vestigia della Società civile, una volta cristiana. Don Bosco concludeva che: “il non far nulla è la stessa cosa che affrettare la dissoluzione sociale” (ivi).
Pio IX pronunciò dopo il XX settembre del 1870 il non expedit ossia non è lecito ai cattolici andare a votare e non è altresì lecita qualsiasi cooperazione con un governo usurpatore[24]. Il non expedit fu mantenuto da Leone XIII poi pian piano fu addolcito e praticamente abolito da San Pio X che in questo problema si mostrò in pratica più malleabile di Leone XIII. La storia di papa Pecci “liberale” è quindi mitologia.
Ora, nei primi anni del “post-1870”, questa (di Pio IX e Leone XIII) era la soluzione ideale, ossia cercare di resistere e ricacciare l’usurpatore, ma, quando il nuovo governo viene de facto accettato dai cittadini e dalla storia, si pone la questione se si possa andare a votare e ribaltare la legislazione, non essendo riusciti ad abbattere il governo.
Pio X
San Tommaso (S. Th., II-II, q. 64, a. 1) e i suoi commentatori (Gaetano[25] e Suarez[26]) distinguono tra tiranno d’usurpazione e tiranno di governo.
Il tiranno d’usurpazione (per es. Vittorio Emanuele II nella Breccia di Porta Pia, XX settembre 1870) è l’ingiusto aggressore di un potere legittimo (invade una Nazione senza essere stato aggredito, oppure rovescia un governo legittimo). All’inizio del suo operare egli è senza titolo legittimo; ma dopo un certo tempo può giungere ad imporsi e la Nazione può accettarlo come suo capo legittimo. Il tiranno di governo, invece, è un sovrano legittimo, regolarmente investito del potere, ma egli abusa dell’autorità, governando non per il bene comune, bensì per il proprio.
Evitato, quindi, il pericolo di un assorbimento dei cattolici da parte dei liberali e durando il regime, che si sperava dovesse cadere tra non molto tempo, si poteva intraprendere un’altra via: un Concordato tra la Santa Sede e il Governo italiano 1°) per ottenere al Papato un minimo di potere temporale onde poter sussistere da sé senza dipendere dal potere politico; 2°) per imporre al Parlamento e al governo, con una larga maggioranza di voti cattolici, una legislazione che rispetti i diritti di Dio, della Chiesa e dell’ordine naturale; 3°) per impedire che una prolungata ed inutile astensione di cattolici dalla vita politica e legislativa del nuovo governo produca un grave danno morale a tutto il popolo italiano, che deve subire leggi contrarie al diritto naturale e divino; 4°) per consentire alla Religione di influire sulla vita sociale e politica degli Italiani e “restaurare tutto in Cristo”.
Si poteva, dunque, votare senza con ciò approvare la “Breccia di Porta Pia” ed anzi protestare anche in sede parlamentare e legislativa contro tale usurpazione. Dopo circa mezzo secolo i massoni e i liberali si erano serviti del non expedit per scristianizzare la legislazione italiana e la vita sociale della Nazione, si doveva reagire andando a votare per ribaltare questa situazione incresciosa. La rivolta civile (le “Insorgenze” anti-risorgimentali) contro l’usurpatore era fallita, il nuovo governo si era stabilizzato e quindi ci si poteva opporre solo in maniera legislativa. Sin dal primo ventennio del Novecento il Papa e altresì i cattolici avvertirono sempre maggiormente l’importanza della questione.
Occorre specificare che il non expedit non fu abolito de jure da San Pio X ma solo de facto. Infatti il Papa lasciò ai Vescovi diocesani la facoltà di decidere sulla liceità di votare nella propria Diocesi. “Nel fatto ciò equivaleva a togliere ogni valore pratico ad una disposizione oramai sorpassata. Dopo la prima guerra mondiale il Benedetto XV lasciò cadere definitivamente il non expedit”[27].
Leo
IL NUOVO TESTAMENTO COMMENTATO DA PADRE MARCO SALES RISTAMPATO
DA EFFEDIEFFE
Monsignor Antonio Martini (Prato 20 aprile 1720 – Firenze 31 dicembre 1809) fu nominato Arcivescovo di Firenze da papa Pio VI nel 1781 e vi restò sino alla sua morte dopo 28 anni di ministero episcopale.
Si laureò all’Università di Pisa in Lettere classiche nel 1748, e per obbedire al Breve di papa Benedetto XIV (13 giugno del 1757[28]) sulla liceità delle traduzioni in volgare della Bibbia solo se accompagnate da ampie note esplicative tratte dai Commenti dei Padri ecclesiastici, dei Dottori scolastici e dei Teologi approvati[29], studiò – a partire dal 1758 – con assiduità il Libro sacro per circa 10 anni e tradusse (tra il 1769 e il 1778) in italiano, a partire dal testo latino della Volgata di San Girolamo[30], tutta la Bibbia corredandola di numerose note.
Tuttavia i Giansenisti, molto forti in Toscana, riuscirono a contraffare la sua traduzione e le sue note esplicative. Perciò questa prima edizione fu sconfessata dal Martini. Infine uscì l’edizione autentica e definitiva a Firenze (in 4 volumi) a partire dal 1702 sino al 1709[31].
Essa, circa 120 anni dopo, fu ripresa, aggiornata quanto allo stile italiano e aumentata notevolmente quanto alle note esplicative del Testo sacro (10 volumi) dal padre domenicano Marco Sales, che vi lavorò ininterrottamente per circa 20 anni.
Padre Marco Sales (Torino 1877-1936), Domenicano, professore di esegesi e di teologia all’Angelicum di Roma dal 1909 al 1911, poi all’ Università di Friburgo (Svizzera) dal 1912 al 1925, nel 1925 venne nominato Maestro del Sacro Palazzo. Studiò anche l’esegesi, le lingue semitiche e commentò tutta la Bibbia: il Nuovo Testamento in due volumi dal 1912 al 1914 (che ora l’Editore Effedieffe sta ristampando) e l’Antico Testamento in otto volumi dal 1915 al 1934.
Per quanto riguarda le numerosissime note esplicative padre Sales si è basato su quelle del Martini e le ha arricchite con altre tratte dai Commenti dei Padri ecclesiastici, dei Dottori scolastici e degli esegeti moderni.
Il commento del Sales si distingue per chiarezza, precisione ed esattezza di termini che gli vengono dalla sua formazione filosofico/teologica di vero discepolo di San Tommaso d’Aquino, profondo commentatore della S. Scrittura alla luce della Patristica. È perciò, uno dei migliori che conosciamo in lingua italiana.
Raccomandiamo, quindi, lo studio del Nuovo Testamento che l’Editore Effedieffe (Podere Piscino, Proceno di Viterbo) ha iniziato a ristampare con il Vangelo di San Matteo (pagine157, euro 13.60).
Il libro si può richiedere a
www.effedieffeshop.com o
info@effedieffe.com; tel. 0763. 71. 00. 69.
Dio benedica l’opera intrapresa dall’editore Effedieffe di ridare ai cattolici libri di seria e solida formazione filosofica, teologica, esegetica e di politica antisovversiva.
Justus
San Pio X e la politica
Secondo il pregiudizio cattolico-liberale la Chiesa non deve far politica, ossia non deve occuparsi di questioni che riguardano la famiglia e lo Stato (società imperfetta e perfetta nell’ordine naturale o temporale), ma deve restar confinata (per la sua materia, che è puramente spirituale) nella sfera privata e individuale. Ora San Pio X, il Papa della affermazione esplicita ed integrale della verità, ha scelto come sua divisa, e l’ha applicata nel corso di tutto il suo pontificato, il motto: “Instaurare omnia in Christo / Restaurare tutto in Cristo”.
“Tutto” in Cristo
Tutto, vale a dire non solo l’individuo, ma anche la famiglia e la città o polis. Infatti l’uomo è animale socievole (Aristotele) ed è fatto per vivere in una famiglia, che unendosi ad altre famiglie forma una città o un villaggio e più villaggi messi assieme formano lo Stato. Senza lo Stato, quindi, l’uomo sarebbe un animale selvaggio e gli mancherebbe uno degli elementi costitutivi della sua natura di animale razionale e libero che è la socievolezza.
La Chiesa e il Papa debbono far politica poiché si occupano dell’ uomo e lo devono elevare all’ordine soprannaturale affinché si salvi l’anima non da solo, non essendo egli un “animale solivago e silvestre”, ma assieme alla sua famiglia e alla città di cui fa parte. Infatti non solo l’individuo deve aiutare gli altri che gli stanno accanto a salvarsi, ma dall’ordine o dal disordine che regnano nella famiglia e nello Stato dipende la maggior o minor facilità per l’individuo di santificarsi e salvarsi: “Dalla forma data alla Società, a seconda che sia in accordo o no con le Leggi divine, dipende il bene o il male delle anime. Dinanzi a questa considerazione e previsione, come potrebbe essere lecito per la Chiesa […] rimanere spettatrice indifferente davanti ai pericoli a cui vanno incontro i suoi figli, tacere o fingere di non vedere situazioni che […] rendono difficile o praticamente impossibile una condotta di vita cristiana?” (Pio XII, Radiomessaggio La solennità, Pentecoste 1941)[32].
Un diritto e un dovere del Papa
Padre Gerolamo Dal-Gal nella sua ottima biografia di San Pio X (San Pio X Papa, Padova, Il Messaggero di S. Antonio, 1954) scrive: “Che cos’è la politica se non l’ applicazione della legge morale alla vita civile e sociale dei popoli e delle Nazioni? Perciò il Papa, che è il Maestro supremo della legge morale nel mondo, farà anche della Politica. È un suo diritto e un suo dovere, ma non al modo dei piccoli uomini di questo mondo, per i quali la politica è egoismo di partiti o di interessi propri. Egli continuerà la politica di Dio e di Cristo, degli Apostoli e dei Papi” (cit., p. 362)[33].
Il Regno sociale di Cristo insegnamento comune dei Papi da Pio IX a Pio XII
San Pio X ha posto le fondamenta per la dottrina esplicita della Regalità sociale di Cristo, che sarà insegnata magisterialmente da Pio XI con l’Enciclica Quas primas dell’11 dicembre del 1925 e l’istituzione nel 1926 della Solennità liturgica delle Festa di Cristo re da celebrarsi nell’ultima domenica di ottobre[34].
Come il modernismo dogmatico vuole la separazione della scienza dalla fede, così il modernismo sociale e politico (il vecchio cattolicesimo liberale, condannato da Gregorio XVI, Pio IX e Leone XIII) propugna la separazione della politica dalla religione, dello Stato dalla Chiesa. Quest’errore condannato costantemente dal magistero ecclesiastico fu ripreso dai modernisti e dai democratico/cristiani sotto il pontificato di San Pio X e venne veementemente da lui condannato come dai suoi successori (Pio XI e Pio XII).
Il “non expedit” e il “Ralliement”
Purtroppo, scrive padre Dal-Gal (cit., p. 461), mentre i cattolici seguirono Pio IX e Leone XIII, che in Italia avevano proibito (non expedit) di andare a votare per dimostrare il dissenso iniziale verso lo Stato usurpatore del potere temporale dei Papi e seguirono San Pio X, che abrogò questo divieto per mandare in parlamento dei deputati che raddrizzassero la legislazione massonica del parlamento italiano, facendo buone leggi senza accettare per questo, i princìpi del massonismo liberale del nuovo regno d’Italia sotto casa Savoia anzi combattendoli, in Francia la Lettera di Leone XIII Au milieux des sollicitudes del 16 febbraio 1892 non fu accolta con pari docilità. Si accusò Leone XIII, anche da parte cattolica, di accettare i princìpi della massonica repubblica francese e non si capì che egli in Francia (come poi San Pio X in Italia) voleva solo cambiare la legislazione per renderla conforme al diritto naturale e divino. Non si capì o non si volle capire? L’abbé Meinvielle, non senza ragione, parla di “deformazione […] sistematica e costante degli insegnamenti pontifici di Leone XIII”.
Qualcuno volle vedere perfino nella Enciclica di papa Pecci Rerum novarum del 15 maggio 1891 un carattere democraticistico se non addirittura socialisteggiante (ivi). Invece la medesima dottrina sociale di papa Pecci fu ripresa da San Pio X nel motu proprio sull’Azione Popolare Cristiana del 18 dicembre 1903, che cita abbondantemente le Encicliche di Leone XIII Rerum novarum del 1891 sulla questione sociale e Graves de communi re sul retto concetto di “Democrazia Cristiana” del 1902.
San Pio X e l’Azione Cattolica
Nell’Enciclica Il fermo proposito dell’11 giugno 1905, in cui San Pio X definisce il suo motu proprio del 18 dicembre del 1903 “il codice e la regola pratica” cui bisogna ispirarsi nell’azione sociale e politica per la restaurazione individuale, familiare e sociale del Regno di Cristo, papa Sarto fa un elogio dell’Azione Cattolica “come strumento di restaurazione della civiltà cristiana” da parte del laicato “sottomesso all’ Episcopato”[35] così come poi Pio XI la vorrà quale “pupilla dei suoi occhi”. Quindi anche in questo non vi è contraddizione tra i cosiddetti “Papi liberali” (Leone XIII, Pio XI e Pio XII) e i “Papi integralmente cattolici” (Pio IX e Pio X), come scrivono certi autori accecati da pregiudizi. È assurdo accusare di liberalismo Pio XI perché ha sostenuto “l’Azione Cattolica” contro “l’Azione Francese” dato che la nascita dell’Azione Cattolica risale già a Pio IX nel 1863 e non inizia con Pio XI[36].
Dal cattolicesimo liberale al modernismo sociale
Il Modernismo sociale ha avuto i suoi rappresentanti di spicco in Italia con don Romolo Murri (il Partito Popolare Italiano) e in Francia con Marc Sangnier (il Sillon). San Pio X ha fulminato sia il modernismo dogmatico (soprattutto con la Pascendi, 8 settembre 1907) e sia quello sociale e politico (specialmente con Notre charge apostolique, 25 agosto 1910), che secondo papa Sarto è “la conseguenza diretta e necessaria del Modernismo filosofico in campo sociale”. La conclusione che ne tira padre Dal-Gal è: “o Cristianesimo o anti-Cristianesimo: o Azione sociale cristiana [Azione Cattolica, nda] o Democrazia moderna senza Dio. E allora nessun laicismo, nessuna aconfessionalità, niente neutralità o interconfessionalità nell’azione politica cristiana” (cit., p. 476).
Nel 1912 con l’Enciclica Singulari quadam caritate del 24 settembre San Pio X torna sulla dottrina sociale e politica condannando nuovamente ed ancor più esplicitamente l’interconfessionalismo e il liberalismo sociale o modernismo politico come “contrario alla predicazione di Gesù”. Lo stesso tema sarà ripreso con ancor maggior vigore e approfondito da Pio XI nella Enciclica Mortalium animos del 1928.
Il modernismo politico conseguenza di quello dogmatico
Padre Girolamo Dal-Gal osserva: “Con la Singulari quadam Pio X completava la Pascendi. Il modernismo sociale non è meno dannoso di quello dogmatico; esso conduce all’abisso grazie ad una certa complicità, forse non pienamente avvertita e voluta, con i più pericolosi nemici della Chiesa e della Società civile. Come i modernisti dogmatici finirono per essere gli alleati dei protestanti e degli increduli, così gli artefici del modernismo sociale si incontreranno con i rivoluzionari socialcomunisti nell’opera della sovversione sociale” (cit., p. 482).
Benedetto Croce e il modernismo
Il filosofo idealista e ateo Benedetto Croce ha scritto riguardo ai modernisti su Il Giornale d’Italia (15 ottobre 1907) che essi “… son liberissimi di trasformare i dogmi secondo le loro idee, passando da un dogma ad un altro sostanzialmente diverso, come quando si passa da un concetto (ad esempio “uomo”) ad un altro concetto (per esempio “gatto”). Io stesso – continua il Croce – faccio uso di questa libertà. Soltanto che io ho la coscienza, facendo questo, di essere fuori della Chiesa e di ogni Religione, mentre i modernisti si ostinano a professarsi non solo religiosi, ma cattolici. Se poi i modernisti asseriscono di non credere al valore del pensiero e della ragione, cadono necessariamente nell’agnosticismo e nello scetticismo. Dottrine, queste, che sono conciliabili con un vago sentimentalismo religioso, ma che ripugnano totalmente ad ogni Religione positiva”.
In realtà i modernisti erano ben coscienti di esser fuori del cattolicesimo, ma volevano restare dentro la Chiesa per trasformarla, come facevano con i concetti e i dogmi, in un’altra entità sostanzialmente diversa: “un vago sentimentalismo religioso, che ripugna totalmente ad ogni Religione positiva” (B. Croce) e specialmente a quella cattolica.
Tuttavia anche un agnostico, idealista, soggettivista e relativista come Benedetto Croce capì la assoluta e totale inconciliabilità del cattolicesimo e di ogni Religione positiva con la filosofia modernista, che è scettica, agnostica, relativista, soggettivista e assertrice della evoluzione o trasformazione dei dogmi in maniera eterogenea, intrinseca e sostanziale[37].
I modernisti perciò non sono scusabili. In loro non vi è ignoranza o buona fede, ma volontà pervicace e ostinata di distruggere da cima a fondo “si fieri postest” la Chiesa e i suoi dogmi divinamente Rivelati per sostituirla con una antropologia umanitarista, sentimentaloide e comunisteggiante alla “falce e martello” in chiave “cristica”.
Leo
 
[1] G. Martina, Pio IX (1846-1850), Roma, Gregoriana Editrice, 3 voll., 1974-1990, I vol., p. 95; R. De Mattei, Pio IX, Casale Monferrato, Marietti, 2000, p. 34; cfr. anche R. Aubert, Il pontificato di Pio IX (1846-1878), 2 voll., Cinisello Balsamo, Edizioni Saie/San Paolo, 1990.
[2] Cfr. L. Bogliolo, Pio IX. Profilo spirituale, Città del vaticano, LEV, 1990.
[3] G.. Martina, cit. vol. I, p. 115.
[4] A. Canestri, L’anima di Pio IX, 4 voll., Marino, Tipografia Santa Lucia, 1965-1967, II vol. p. 37. Cfr. anche A. Tornielli, Pio IX. L’ultimo Papa Re, Milano, Il Giornale/Biblioteca storica, 2004 (un libro di oltre 600 pagine, interessante e ben scritto di cui consiglio la lettura).
[5] Pio IX (1846-1850), cit., I vol., p. 100-101.
[6] A. Polverari, Vita di Pio IX, 3 voll., Città del Vaticano, LEV, 1986-1988.
[7] R. De Mattei, cit., p. 37.
[8] G. Martina, cit., I vol., p. 109.
[9] Il sacerdote francese Charles Maignen arrivò a teorizzare la sede vacante durante il Pontificato di Leone XIII da lui sospettato di eresia a causa del Ralliément in due suoi scritti inediti (Du pouvoir indirect du Pape dans l’ordre politique; Un Pape légitime, peut-il cesser d’etre Pape?) che si trovano negli Archivi della Congregazione dei Fratelli di San Vincenzo de’ Paoli. “Parvus error in principio fit magnus in fine”. Cfr. E. Poulat, Catholicisme, démocratie et socialisme, Parigi, Casterman, 1977, pp. 107, 363, 377, 384, 513.
[10] Cfr. R. De Mattei, Il Ralliement di Leone XIII, Firenze, Le Lettere, 2014.
[11] “Eresia bianca” è un’espressione criptica di costoro, che distinguono la “eresia nera” ossia la vera e propria negazione teoretica di un dogma rivelato da Dio e definito dalla Chiesa dalla “eresia bianca” che sarebbe una tendenza all’accomodamento, al compromesso e soprattutto un insegnare la verità, ma senza la forza e il coraggio pratico e senza tirar tutte le conclusioni disciplinari a partire dalle tesi speculative. Di questa eresia bianca Pio XII sarebbe il campione.
[12] Cfr. G. Martina, L’Enciclopedia dei Papi, Roma, Editore Treccani, Istituto della Enciclopedia Italiana, 2000, vol. III, p. 561, voce “Pio IX”.
[13] Per quanto riguarda l’incidente di Antiochia. S. Paolo nella Epistola ai Galati (II, 11) afferma: «Ho resistito in faccia a Pietro, poiché era reprensibile». Secondo S. Agostino e S. Tommaso (S. Th., III, q. 103, a.4, ad 2), S. Pietro peccò venialmente di fragilità nell’osservare le cerimonie legali dell’AT, per la troppa diligenza di non scandalizzare i giudei, provocando così lo scandalo dei pagani.
[14] G. Martina, Pio IX (1846-1850), cit., I vol., p. 119. Lo studio dei libri del Martina può esser integrato con quelli di autori altrettanto seri dal punto di vista scientifico in storiografia quali G. S. Pelczar, Pio IX e il suo Pontificato sullo sfondo delle vicende della Chiesa nel secolo XIX, 3 voll., Cracovia, 1887, tr. it., Torino, Libreria Berruti, 1909-1911; P. Balan, Continuazione alla storia universale della Chiesa cattolica dell’abate Rohrbacher dall’elezione al pontificato di Pio IX nel 1846 sino ai nostri giorni, 3 voll., Torino, Marietti, 1884.
[15] A. Canestri, cit., II vol., p. 65-66.
[16] A. Canestri, cit., II vol., p. 84.
[17] G. Martina, cit., Roma, Gregoriana Editrice, 1974, vol. I, p. 73.
[18] G. Andreotti, La fuga di Pio IX e l’ospitalità dei Borboni, Roma, Benincasa Editori, 2003, p. 129.
[19] Cfr. F. Traniello, Cattolicesimo conciliatorista, Milano, Marzorati, 1970, pp. 18-31.
[20] Cfr. L. C. Farini, Lo Statuto romano dall’anno 1815 all’anno 1850, Firenze, 1853, vol. II, pp. 63-65; A. Pellicciari, L’altro Risorgimento, Casale Monferrato, Piemme, 2000, p. 75.
[21] R. De Mattei, cit., p. 41.
[22] R. De Mattei, cit., p. 48.
[23] G. Martina, cit., I vol., p. 230; A. Canestri, cit., II vol., p.115 .
[24] Cfr. La Civiltà Cattolica, serie VIII, v. 6, pp. 129-145, 530-544, Le astensioni elettorali in Italia; Ibidem, serie VIII, v. 8, pp. 270-281, 513-532, Delle elezioni; Ib., serie X, v. 10, pp. 16-18 (a cura di M. Liberatore), Intorno alla liceità dell’intervento dei cattolici italiani alle elezioni politiche; Ib., serie XIV, v. 2, pp. 414-434, Ragionevolezza giuridica del non expedit per le urne politiche in Italia; L. Bedeschi, I cattolici ubbidienti, Napoli/Roma, 1962.
[25] In Summ. Th., II-II, q. 64, a. 1, ad 3um.
[26] De virtutibus, disput. XIII, sect. VIII, Opera omnia, ed. Vivès, t. XII, p. 759.
[27] F. Roberti – P. Palazzini, Dizionario di Teologia Morale, Roma, Studium, IV ed., 1968, II vol., p. 1102.
[28] Inizialmente il Concilio di Trento, con papa Paolo IV (1559) e San Pio V (1564), proibì le traduzioni in vernacolare della Bibbia senza l’approvazione del S. Uffizio, poi Benedetto XIV (1757) mitigò questa prima disposizione.
[29] Anche il CIC del 1917 (can. 1391, 1399-1400) proibisce le versioni della Bibbia in lingua volgare, che non siano corredate di note estratte dai Padri della Chiesa e dagli esegeti approvati.
[30] Il testo della Bibbia, per quanto riguarda il Nuovo Testamento, è tutto scritto in greco, tranne il Vangelo di S. Matteo, che fu scritto in aramaico, ma il testo originale andò perduto e fu fatta una seconda versione in greco (cfr. La Sacra Bibbia, a cura del Pontificio Istituto Biblico, diretta da A. Vaccari, Firenze, Salani, 1961, Introduzione, p. 7). Per il Vecchio Testamento si hanno tre lingue, ma la parte principale di esso fu scritta in ebraico. In aramaico furono scritti solo alcuni capitoli dei Libri dei Profeti Esdra e Daniele ed un solo versetto del Profeta Geremia. In greco fu scritto soltanto il secondo Libro dei Maccabei e la Sapienza (cfr. La Sacra Bibbia, a cura del Pontificio Istituto Biblico, cit., p. 7).
Attenzione al cosiddetto “testo originale ebraico” o “Masoretico” (da “masorà” o «tradizione» in ebraico) del Vecchio Testamento. Infatti esso fu, sì, iniziato nel V secolo a. C., ma fu codificato dai rabbini talmudisti, detti Masoreti, della Scuola di Tiberiade tra il VI e il X secolo dopo Cristo.
La versione in greco dell’Antico Testamento, detta dei Settanta, fu redatta in Alessandria d’Egitto da 70 traduttori, che erano ebrei della Diaspora venuti da Gerusalemme tra il 250 a. C. e il 130 a. C., a partire da un manoscritto in ebraico del III secolo a. C. e perciò venne chiamata Versione dei “Settanta”. Tuttavia già a partire dal I-II secolo d. C. essa ha subìto delle alterazioni ed è pervenuta a noi in tantissimi manoscritti che non è facile individuare la tradizione genuina (cfr. La Sacra Bibbia, a cura del Pontificio Istituto Biblico, cit., p. 12).
Infine S. Gerolamo, “ultimo di tempo, ma primo per merito tra i traduttori della Bibbia nell’Antichità” (cfr. La Sacra Bibbia, a cura del Pontificio Istituto Biblico, cit., p. 14), già nel 373 si recò in Terra Santa e si immerse nello studio della S. Scrittura, dei Padri greci e delle lingue semitiche alla scuola dei maestri della Scuola di Antiochia, valendosi “dei lavori dei suoi predecessori, di una grande padronanza delle lingue bibliche (ebraico, aramaico e greco) e di una conoscenza unica della letteratura esegetica sia giudaica che cristiana” (cfr. La Sacra Bibbia, a cura del Pontificio Istituto Biblico, cit., p. 14). Poi papa Damaso nel 384 gli ordinò di portare a termine i lavoro iniziato ed infine nel 386 si ritirò definitivamente a Betlemme – ove morì – in uno dei monasteri fondati da Santa Paola Romana dove compì la Volgata nel 406 dopo circa 17 anni di lavoro, traducendo l’Antico Testamento direttamente dall’ ebraico e dall’aramaico originale non ancora interpolato dai Masoreti e che perciò non risente delle alterazioni introdotte dai talmudisti o Masoreti anticristiani (come spiega anche il rabbino convertito Paul Louis Bertrand Drach nella sua opera De l’harmonie entre l’ Eglise et la Synagogue, Parigi, Mellier, 1844, tr. it., Roma, 1864) e valendosi anche della comparazione del testo ebraico con i migliori codici greci.
La Vulgata fu definita dal Concilio di Trento (IV sessione, 8 aprile 1546) “autentica”, ossia immune da ogni errore in materia di fede e di morale, genuina fonte della Rivelazione e espressione fedele della Parola di Dio. Infatti S. Girolamo “badò nella traduzione più al significato del Testo sacro che alla lettera, in una bella lingua latina… così che la Vulgata si può dire conforme ai Testi originali nella sostanza del significato” (cfr. La Sacra Bibbia, a cura del Pontificio Istituto Biblico, cit., p. 14).
Quindi la Vulgata di S. Girolamo resta la traduzione più sicura e più conforme al vero originale ebraico. Cfr. anche S. Zarb, Il testo biblico, Roma, 1939, G. Perrella, Introduzione generale alla Sacra Bibbia, Torino, 1952; A. Vaccari, S. Girolamo, Roma, 1921; J. M. Vosté, De latina versione quae dicitur “Vulgata”, Roma, 1928; F. Spadafora, Dizionario biblico, Roma, Studium, 1963, pp. 321-323; 595-597; 615-618.
[31] Cfr. G. Piovano, La versione e il commento della Bibbia di Antonio Martini, in Scuola cattolica, n. 67, 1929, II vol., pp. 337-347.
 
[32] Cfr. anche Pio XII, Discorso ai Giuristi Cattolici Italiani, 6 dicembre1953.
[33] Cfr. San Pio X, Prima Allocuzione Concistoriale del 9 novembre 1903, Pii X Acta, vol. I, pp. 56-59; Enciclica E supremi apostolatus cathedra, 4 ottobre 1903; Enciclica Jucunda sane, 12 marzo 1904. Secondo padre Dal-Gal San Pio X si è inspirato nella sua azione politica al magistero e alla pratica di San Leone Magno, San Gregorio Magno, Pio IX e Leone XIII.
[34] Cfr. anche Pio XI, Enciclica Ubi arcano, 1921.
[35] Cfr. S. Pio X, Enciclica all’Episcopato Italiano Pieni l’animo, 28 luglio 1906; Lettera Apostolica Notre charge apostolique, 25 agosto 1910.
[36] Cfr. F. Olgiati, Storia dell’Azione Cattolica, Milano, Vita e Pensiero, 1922.
[37] Cfr. Francisco Marin-Sola, L’évolution homogène du dogme catholique, II ed., Parigi, 1924 ; R. Garrigou-Lagrange, Le sens commun. La philosophie de l’etre et les formules dogmatiques, Parigi, 1909, tr. it., Il senso comune. La filosofia dell’essere e le formule dogmatiche, Santa Severa, 2013.

Mik’hael